Il nuovo cibo tecnologico non piace alla maggioranza, ma la minoranza che lo vuole è sufficiente per svilupparlo

Di Carlo A. Pelanda

Artificializzazione del cibo. E' cominciata con il primo pezzo di carne messo sulle braci o il primo impasto di acqua e frumento macinato e continua come crescente industrializzazione del ciclo alimentare. Ma nonostante l'enorme progresso tecnologico degli ultimi decenni – liofilizzati, pappette per neonati, surgelati - resta ancorata ad un processo di trasformazione di tipo primitivo: per esempio, allevamento dell'animale, macellazione, lavorazione e consumo. In un recente scambio di idee tra capitalisti di ventura, specialisti del settore alimentare e scenaristi –  tra cui questa rubrica -  ci si è chiesti cosa stava bloccando ulteriori passi di artificializzazione. Per esempio, che senso ha ricavare proteine da un
manzo intero? Nessuno, se posso far crescere la bistecca già in scatola via ingegneria genetica saltando i costi di allevamento dell'animale completo. Infatti, si è stimato, un chilo di "carne" costerebbe al consumo meno di un euro contro i più di dieci correnti ed il profitto del produttore aumenterebbe di sette volte. Il prodotto sarebbe sanissimo, ben trasportabile e conservabile, modificabile in relazione a diete particolari. Sfamerebbe i poveri e darebbe meno calorie agli obesi. Inoltre, eviterebbe il barbaro stermino di esseri viventi quali pesci e, con in più l'imprigionamento in lager, animali da alimentazione. Perché non si sta saltando la mediazione zootecnica ed agricola per trasformare proteine e carboidrati in aggregati gustabili nel momento in cui si è scoperto che potranno essere creati direttamente in laboratorio?

L'analisi ha dato tre risposte:

(a) l'oscurantismo diffuso, combinato con il conservatorismo alimentare, rende negativo il marchio "artificiale";

(b) la nuova tecnologia toglierebbe lavoro ad allevatori ed agricoltori e ciò creerebbe enormi problemi economici e di consenso;

(c) i brevetti del cibo tecnologico, se questo diventasse la fonte alimentare prevalente, dovrebbero per
forza essere resi pubblici, per evitare monopoli delicatissimi, e ciò disincentiva l'investitore.

Ma entro questi vincoli si è individuata una porticina da dove iniziare gli investimenti futurizzanti "next food". Negli alimenti dietetici "artificiale" è un marchio positivo perché garantisce quantità e ottimo gusto a fronte di minime calorie. Dalle stesse tecnologie, poi, possono essere derivati alimenti a minimo costo ed alto nutrimento per i poveri del pianeta a cui nessuno può opporsi pena l'accusa di immoralità. Quindi è probabile saranno obesi, diabetici, affamati – loro tutori - ed animalisti il primo traino di domanda  per la rivoluzione del cibo.

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La versione originale dell'articolo, sul sito di Carlo A. Pelanda (originariamente pubblicato su )

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