Università degli Studi di Pisa
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filosofia
Anno Accademico 2005-2006

Vincenzo Russo

Più che Umani

La Bioetica filosofica e le tecnologie del potenziamento psicofisico


Relatore: Prof. Sergio Bartolommei


Sezione Terza: Obiezioni di Principio

In questa sezione prenderò in esame le obiezioni che i bioconservatori (nello specifico il PCB) sollevano contro i tre desideri che potrebbero essere soddisfatti con le nuove tecnologie NBIC: potenziamento delle capacità psicofisiche, prolungamento della vita attiva, e possibilità di intervenire direttamente sull’umore.

Capitolo 7. Organismi tecnologicamente potenziati: sana aspirazione al miglioramento o nociva velleità perfezionista?

7.1 L’aspirazione all’eccellenza

Passiamo ora ad analizzare la prima obiezione di principio, diretta specificamente contro il desiderio di potenziare le proprie prestazioni psicofisiche tramite le tecnologie NBIC. Secondo molti bioconservatori, la MCT è da respingere perché favorirebbe la perversione di un sano valore, tanto antico quanto diffuso in ogni parte del globo: l’aspirazione all’eccellenza.

Il desiderio di migliorare se stessi incrementando le proprie capacità, è innegabilmente un aspetto centrale e positivo della nostra vita. Tutti ammiriamo le superiori prestazioni fisiche mostrate dagli atleti sui campi di gara, le sbalorditive evoluzioni degli acrobati in un circo, l’assoluta concentrazione che inchioda lo sguardo dei duellanti in un torneo di scacchi. Oltre agli sport e alle esibizioni, esistono anche molti mestieri in cui le persone cercano attivamente di ottenere prestazioni superiori, basti pensare ai militari, ai chirurghi, ai piloti. Ma non solo. Nella nostra vita quotidiana esistono una miriade di attività per le quali più o meno a tutti farebbero comodo un corpo più bello o prestante, o delle facoltà mentali superiori. Insomma non sembra esservi nulla di immorale o indegno nel voler migliorare se stessi, anche se poi questo sviluppo si concretizza in un aumento di caratteristiche “materiali” più che “spirituali”.

Ovviamente, per ottenere i progressi desiderati, “l’uomo ha da sempre usufruito dei vantaggi offerti da strumenti ed equipaggiamenti migliori, tecniche di allenamento e pratica migliori, nutrizione ed esercizio migliori”105. L’essere umano è un animale il cui ambiente esistenziale è già da sempre in coniugazione con la tecnicità, tecnicità che si configura fin da subito come un modo di potenziare certe sue capacità “naturali”: si può cacciare da soli e a mani nude, ma è molto più facile farlo con un’arma e in gruppo. Il potenziamento delle facoltà umane si alimenta di tecniche (ad esempio le arti marziali o il sistema di calcolo decimale) e tecnologie (basti pensare alla storia delle armi o a quella dei calcolatori elettronici), a tal punto da formare un connubio pressoché inscindibile.

Ebbene, oggi sono disponibili nuove capacità tecniche per migliorare ogni tipo di prestazione, nello specifico farmaci, modificazioni genetiche e procedure chirurgiche. Sarà presto possibile potenziare se stessi oltre quei limiti imposti dalla scarsa plasmabilità naturale del nostro corpo e della fragilità della nostra mente. Da un punto di vista morale, la domanda che qui dobbiamo porci è la seguente: perché, se il desiderio di aumentare le proprie facoltà da una parte, e i biopotenziamenti implementabili con le tecnologie NBIC dall’altra, non sono in sé moralmente deprecabili, la loro sinergia invece dovrebbe comportare una perversione?

7.2 La perversione dell’aspirazione all’eccellenza

Secondo il PCB l’utilizzo del potenziamento biotecnologico compromette la dignità dell’attività umana sminuendo il valore dei suoi risultati: stando a questa critica, la MCT è immorale in linea di principio perché comporterebbe un’interpretazione malsana dell’aspirazione umana all’eccellenza.
L’accusa sfrutta il modo in cui i biopotenziamenti modificano il carattere dell’azione umana (vedi capitolo precedente): con essi una prestazione appare “meno reale, meno attribuibile all’agente, meno degna della nostra ammirazione”106. L’attività svolta grazie al biopotenziamento perde dignità perché diventa più facile, i risultati dell’opera umana si fanno meno rilevanti perché non sono completamente merito della tenacia e del talento di una persona. Con la scorciatoia del biopotenziamento il valore della superiorità umana in una data attività viene meno, soffocato dall’efficacia del mezzo tecnico utilizzato che tende a diventare il vero protagonista della scena a scapito della persona. Seguendo la MCT noi di fatto deleghiamo alle tecnologie NBIC tutto ciò che fa la differenza in una data prestazione, ci appropriamo del margine di superiorità senza averne il merito: il mio corpo biopotenziato diventa un mero strumento, un artificio caricato di potenzialità sviluppate altrove e, quindi, se riuscirò a distinguermi in una data attività, non sarò io l’unico artefice, il responsabile dei miei prodigiosi risultati. L’eccellenza biopotenziata è, secondo questa critica, non solo un’eccellenza disumana, ma un’eccellenza tradita: il suo valore non supera quello di una qualsiasi altra contraffazione, e i risultati conseguiti con essa non meritano alcun riconoscimento.

Secondo il PCB ogni maestria ha un valore intrinseco il cui profondo significato sta proprio nel carattere umano di chi la compie, nel fatto cioè che l’agente in opera nel mondo sia un essere umano. Quando ammiriamo l’esecuzione di un atto o ci sbalordiamo di fronte alle capacità esibite in una competizione, noi non lodiamo solo i risultati, ma anche il modo in cui questi sono stati ottenuti; il valore di una prestazione sta proprio nel suo essere la prova di un talento coltivato in modo umano fino a raggiungere un livello di eccellenza. Quindi, nel valutare una prestazione, noi teniamo sempre conto non solo del suo esito, ma anche dell’esecutore e della maniera in cui è riuscito a fare certe cose, e infatti nel valore della maestria giocano un ruolo preminente i tratti “speciali” attribuibili all’agente, ovvero i suoi talenti naturali uniti alla sua determinazione nel raggiungere certi obiettivi. Se invece la prestazione, per quanto sorprendente, è il frutto di un biopotenziamento, allora il merito non è tutto di chi esegue l’attività in questione.

La perversione condannata dal PCB sorge allora dal contrasto tra due fattori: da una parte c’è il valore di una data prestazione eseguita da un essere umano con le proprie forze e i talenti “naturali” o innati; dall’altra c’è la MCT che invece ci autorizzerebbe a superare la condizione umana (ovvero, a usare ogni mezzo) pur di primeggiare. Questa “eccellenza a tutti i costi” ci fa perdere di vista il fatto che l’importanza insita nella superiorità delle nostre azioni, andrà progressivamente svanendo, perché il merito dei risultati non sarà più dell’agente, ma dello strumento tecnico adoperato. E quindi il nostro desiderio di prestazioni superiori verrà non solo pagato al duro prezzo della disumanità, ma sarà anche tradito, perché in realtà non c’è alcun valore in una prestazione biopotenziata, cioè truccata e disumana.

L’esempio concreto a cui applicare questo argomento è di scottante attualità: il doping nello sport. Tutti ammiriamo l’impegno, la tenacia e i talenti di un atleta. Non solo, crediamo anche che il suo desiderio di eccellere, di arrivare primo nella gara, sia un sano valore, uno scopo nobilitante. Però, quando si scopre che una prestazione atletica è contaminata da qualche biopotenziamento (di solito farmaceutico, ma già si parla di “atleti geneticamente modificati”107), tutto il senso dello sport crolla. Crolla non solo perché l’atleta in questione ha barato. L’imbroglio è sì un atto antisportivo, ma in ultima istanza dipende dalle regole del gioco. Col doping il valore dell’attività sportiva viene meno perché ci rendiamo conto di quanto l’aspirazione all’eccellenza possa diventare una brama perversa e malsana, capace di spingere una persona a giocare sporco e a mettere in serio pericolo la propria salute pur di primeggiare. Bene, secondo il PCB, la MCT non è altro che il tentativo di legittimare moralmente questo tipo di perversione. È un argomento accettabile? Prima di rispondere bisogna sollevare un’altra domanda.

7.3 Cos’è che rende umana un’attività? Intenzionalità ed Eros

Il primo dubbio che possiamo porci circa la critica sollevata dal PCB, riguarda proprio l’insistenza sul carattere umano di un’opera o di un’attività. È un dubbio plausibile, dal momento che tutto l’argomento si basa sull’assunto secondo il quale sarebbe proprio l’umanità di un’azione a determinarne il valore. Per rispondere a questa domanda, il PCB propone di fare un paragone tra gli umani e gli altri animali. Ecco il ragionamento:

Premessa: Nell’uomo è possibile distinguere l’atto dal relativo agente, negli animali no.

Tesi 1: Negli altri animali c’è necessariamente l’unità di atto e agente. Siccome essi agiscono sempre seguendo certi istinti e non hanno la possibilità di riflettere, allora si può presumere che agiscano senza la coscienza di essere l’origine dei propri atti. Per questo non possono, ad esempio, fingere deliberatamente, non pianificano, e la loro volontà si esprime solo come l’assenza di coercizioni esterne, non sotto forma di una scelta del tutto cosciente. È questa impossibilità di distinguere tra atto e agente che non ci consente di passare all’imputabilità: un animale non può dirsi responsabile delle proprie azioni.

Tesi 2: D’altra parte l’atto umano può essere frutto di una decisione, può essere pianificato con largo anticipo, può essere intenzionale. Solo se le persone hanno la facoltà di decidere (in termini giuridici “di intendere e di volere”) sono imputabili, e possono essere chiamate a rispondere delle loro azioni.

Non so quanto sia vera la Tesi 1, ma di certo non è questa la sede per sviluppare un’indagine sulle facoltà mentali degli animali non umani. Prendiamola per buona e stabiliamo che la differenza essenziale tra agire umano e agire animale sia l’intenzionalità. Questo concetto gode di un posto di tutto rispetto nella storia della filosofia e, ancora, non è questo il luogo adatto a una sua disamina, quindi invito il lettore ad accettarne un’interpretazione semplice e pratica: l’intenzionalità è la capacità di fare riferimento a un oggetto diverso da sé stessi. La cosa importante è che qui spunta subito una

Obiezione: Anche la decisione di utilizzare le nuove tecnologie per migliorare il proprio corpo è frutto di una scelta deliberata. Anzi, proprio l’intenzione di superare i limiti che la natura ci impone sembra appoggiarsi a una facoltà eminentemente umana, cioè la capacità di riferirsi a oggetti ideali e trascendenti, e di pianificare possibili futuri.

Il PCB è cosciente di questa obiezione e fornisce una risposta che, a mio parere, getta indirettamente luce, non solo sul problema di fondo dell’argomento in questione, ma anche su un uso alquanto discutibile della MCT.

Risposta del PCB: Il desiderio di potenziare il proprio corpo, il miglioramento di sé e di quello che si è capaci di fare, sono frutti dell’aspirazione all’eccellenza. Questa aspirazione però, non scaturisce solo da un puro sforzo di volontà, né solo da un istinto animale, ma da quella “particolare miscela di intelletto e desiderio, propria degli esseri umani,”108 che i Greci chiamavano eros (amore): “il desiderio di completezza, perfezione e di trascendenza”109. Ora, l’eros è proprio la personale consapevolezza dei propri limiti, la coscienza di un corpo finito e di un’anima piena di conflitti.
“Nella coscienza della nostra finitezza e delle nostre lacerazioni interne, lottiamo per renderci meno imperfetti, più nobili, migliori… vogliamo sentirci appagati per quanto ciò sia umanamente possibile.”110

L’eros non può minare la nostra identità né la nostra umanità, perché ci spinge a raggiungere la perfezione umana. L’eros è la consapevolezza della mancanza, un anelito positivo che ci spinge a migliorare per raggiungere la bellezza e, per il di lei tramite, il bene. Trasformando il corpo e la mente fino a superare la condizione umana, non solo si vanno ad abbattere quei limiti che sono necessari all’eros (giacché chi non ha limiti non può desiderare altro), ma si distorce anche la natura stessa dell’agente: non più uomini e donne che eseguono in maniera eccellente una data attività, ma entità altre, non più umane, che agiscono a modo loro e in base a valori diversi.
Conclusioni del PCB111:

   Eccellenza ingannata: utilizzando la biotecnologia per ottenere migliori prestazioni, tradiamo il senso stesso dell’eccellenza e, di conseguenza, non avrebbe più senso dimostrare di avere prestazioni migliori.
   Perversione dei desideri e delle aspirazioni: se giustifichiamo l’uso della biotecnologia per trascendere i nostri limiti naturali, allora giustifichiamo una modifica nel senso delle nostre aspirazioni, non più rivolte al conseguimento di risultati tramite le sforzo individuale e la coltivazione delle nostre limitate doti.
   Identità compromessa: l’uso delle tecnologie NBIC per trasformare se stessi in ciò che si vuole rischia di compromettere la propria identità, perché così facendo si delega il potere di modificare il proprio corpo e la propria mente a un agente esterno.

Qui, da una parte il PCB mira a difendere l’umano desiderio di primeggiare, dall’altra invece evidenzia l’importanza dei limiti biologici e morali a ciò che può essere realizzato; il ragionamento è questo:

Nucleo dell’argomento: La volontà (il desiderio, l’aspirazione) di eccellere è morale purché il conseguimento dell’eccellenza venga ottenuto entro i limiti di ciò che la natura ci mette a disposizione. Inoltre, più impegno, lavoro e determinazione sono investiti dal singolo agente per raggiungere l’eccellenza, più la sua attività acquisirà valore e, di conseguenza, dignità. Il desiderio di migliorarsi e lo sforzo necessario per ottenere l’eccellenza in una data prestazione fanno parte della natura umana e conducono verso la perfezione umana. Usando invece i biopotenziamenti per superare i nostri limiti naturali, il desiderio di perfezione umana viene meno e si aprono le porte a degenerazioni di vario tipo.
Credo che questa obiezione sia molto limitata e nel complesso manchi l’obiettivo, ma credo anche che abbia il pregio di indicare un punto debole insito nella MCT. Poniamoci ancora un’altra domanda: che cosa dobbiamo intendere per “prestazione superiore”? Che vuol dire “aspirare all’eccellenza”?

7.4 “Prestazione superiore” si dice in molti modi

Prestazione (performance) è una “opera o attività fornita da persone, animali o cose”112 e indica anche il rendimento di una macchina. Deriva direttamente dal latino praestatione che significava “garanzia”, ma la pienezza dei suoi significati si può riscontrare solo rispetto al verbo praestare, il quale ha ben dodici usi nella sua accezione transitiva.

Superiore: come lo stesso PCB riconosce, questo aggettivo ha, nel nostro ambito, almeno quattro accezioni diverse:

   Meglio di quanto io abbia fatto fino ad ora: superiorità rispetto a se stessi.
   Meglio di quanto possa fare il mio avversario: superiorità rispetto agli altri.
   Meglio di quanto sia mai stato fatto fino ad oggi: superiorità rispetto alle condizioni attuali.
   Meglio di quanto potrei fare io senza qualche biopotenziamento: superiorità rispetto all’umano.

Ora, secondo il PCB, le persone intenzionate a ottenere prestazioni superiori hanno come motivazione precipua quella di realizzare un’attività umana eccellente113. Ma, com’è facile intuire dallo schema semantico sopra riportato, si tratta di una prospettiva alquanto parziale che, inoltre, implica un’interpretazione ben precisa della MCT. È vero infatti che tutti i significati del verbo praestare hanno come punto in comune un certo carattere relazionale: una prestazione è sempre un dimostrazione, una prova, un’ostentazione, un rendere conto, e la sua superiorità può essere riconosciuta solo davanti a un pubblico di spettatori (o avversari) capaci di apprezzare i risultati ottenuti. E forse non è un caso che i primi attributi biopotenziati siano stati proprio quelli estetici (basti pensare al crescente successo della chirurgia plastica soprattutto nelle professioni legate al mondo dello spettacolo) o agonistici (da sempre gli atleti cercano di ottenere vantaggi grazie a varie forme di espedienti tecnici, che vanno dai metodi di allenamento all’assunzione di farmaci ad hoc).

Però il desiderio transumanista di superare la condizione umana non implica necessariamente l’aspirazione all’eccellenza. Infatti, esistono altre interpretazioni della MCT, altre motivazioni che possono spingere le persone a migliorare le prestazioni del proprio corpo. Per citare solo le due più importanti, il desiderio di essere più liberi emancipandosi dalle restrizioni dell’organismo umano, e quello di esplorare il regno di esperienze postumano con la speranza di conoscere meglio se stessi e il mondo. Quindi, per analizzare il problema in modo completo, non possiamo limitarci alla questione generale del “se sia giusto o sbagliato desiderare di avere prestazioni superiori”, ma dobbiamo chiederci in particolare anche il perché del desiderio transumanista e, cercando le vere motivazioni, considerare anche la direzione in cui il potenziamento è incanalato. Solo per questa strada il nostro giudizio morale può giungere al cuore del problema, cioè a ciò che veramente solleva il nostro sdegno. Infatti, chi è spinto dalla competitività e dal desiderio di distinguersi tra gli altri a tutti i costi, allora non ha certo bisogno della MCT e dei biopotenziamenti per pervertire la sua aspirazione: essa è già corrotta all’origine, e merita il nostro biasimo, perché è posta in cima ad altri valori ben più importanti, quali ad esempio l’incolumità personale e quella altrui, la solidarietà, il rispetto delle regole eccetera. Se siamo invece mossi da altri desideri, come quello di migliorare le nostre attuali condizioni di vita, o quello di emancipare l’umanità aprendo a ciascuno la possibilità di esercitare autonomamente un controllo maggiore sul proprio corpo, allora l’obiezione del PCB perde efficacia.

In conclusione, interpretando il desiderio di superare la condizione umana esclusivamente come un’aspirazione all’eccellenza, il PCB compie una scelta arbitraria e, di conseguenza, l’obiezione di principio che ne consegue ha una portata molto limitata: può essere sollevata solo contro chi vuole sfruttare i biopotenziamenti come un trampolino per primeggiare sul prossimo sempre e comunque o, peggio ancora, come una strada per avvicinarsi a un qualche ideale di perfezione. Per rispondere alla domanda sollevata all’inizio, le tecnologie NBIC possono solo essere incolpate di spianare la strada dell’esagerazione a chi coltiva un’aspirazione all’eccellenza già immorale. Ma il biasimo è da indirizzare senz’altro all’agente che non dà il giusto peso al desiderio di primeggiare sul prossimo114, di certo non alle nuove tecnologie ch’egli può utilizzare per i suoi fini. Se infatti così non fosse, per coerenza dovremmo ammettere che la responsabilità morale di un’azione è da imputarsi parzialmente allo strumento utilizzato per compierla, cadendo nel tranello di giustificare moralmente l’uomo dichiarandolo parzialmente incapace di intendere e di volere.

La mia posizione è che i biopotenziamenti metteranno sempre più a nudo la differenza tra due valori spesso confusi nella nostra società: l’accettabile aspirazione al miglioramento personale e l’inaccettabile brama di perfezione.

7.5 Critica dell’uomo perfetto

Per concludere, vorrei sollevare una questione sul perfettismo, inteso come l’atteggiamento di chi crede in un qualche ideale di umanità perfetta e ne propugna senz’altro il raggiungimento. Ho detto che l’errore fondamentale del PCB consiste nell’identificare il desiderio di avere prestazioni superiori con quello di raggiungere l’eccellenza. Ora, secondo l’obiezione bioconservatrice questa ambizione sgorga da un sentimento di eros che spingerebbe il nostro animo verso un ideale di perfezione umana. Non ho intenzione di criticare questo punto, né voglio addentrarmi sui vari significati dati al concetto di amore nella tradizione filosofica greca115. Prendo per buona la tesi del PCB perché i miei dubbi vertono sulla positività stessa dell’idea di perfezione umana.

Ecco come Aristotele distingueva tre accezioni di “perfetto”116:

ciò che è completo, nel senso che non manca di nessuna parte

ciò che possiede, nel suo genere, un’eccellenza insuperabile “rispetto alla virtù o abilità e al bene che gli sono propri”117

ciò che ha raggiunto il proprio fine, il suo scopo ultimo, posto che si tratti di un fine buono

Alla luce di queste tra accezioni, come possiamo intendere il concetto di “essere umano perfetto”?

l’uomo completo (perfettismo dell’integrità): questa accezione è debole e presuppone un qualche ideale di integrità a cui fare riferimento quando giudichiamo qualcosa come incompiuto o in qualche modo carente. Un singolo uomo è perfetto, in questo senso, se al di là di esso non è possibile trovare alcuna caratteristica che sia propria del concetto “uomo”. Così accade quando diciamo “questo è un uomo perfetto” e intendiamo dire qualcosa del tipo “questo è perfettamente un uomo” nel senso che “a questo individuo non manca niente per essere un uomo”, ovvero “questo è un uomo a tutti gli effetti”. Il perfettismo dell’integrità è ovviamente accompagnato da una nozione di normalità e, in pratica, nel linguaggi comune usiamo questa concezione sempre in senso negativo, vale a dire per indicare ciò che è incompleto. Per quanto riguarda le prestazioni umane, il concetto di perfezione come completezza può servire da meta nei processi di educazione (ad esempio, giudichiamo perfettamente matura una persona quando mostra di avere tutti gli attributi socialmente ritenuti essenziali a una completa maturità) o come criterio per stabilire la normalità di un tratto o una capacità (ad esempio, giudichiamo una persona in perfetta salute quando si sente bene e non ha patologie o menomazioni). Ora, abbiamo già visto (vedi cap. 5.3) come l’attributo di normalità crei più problemi di quanti ne risolva se se ne confondono le applicazioni sociali con quelle morali. Forse sarebbe addirittura meglio evitare di tirare in ballo questa caratteristica quando si parla di condotta o si giudicano le motivazioni etiche di una persona, e conservarne le accezioni sociali solo quando possono servire per effettuare discriminazioni obiettive e utili al processo deliberativo. Di certo questa accezione non sembra essere quella propugnata dal PCB: la ricerca della perfezione umana deriva certamente dalla consapevolezza dei propri limiti, e quindi, per estensione, dalla percezione della propria incompletezza, però sarebbe sbagliato identificare un vero uomo (un uomo completo) con un uomo eccellente. Quello che ci interessa è la superiorità in certe prestazioni, non la normalità.

l’uomo eccellente (perfettismo idealistico): Questa accezione si usa per esprimere l’eccellenza relativa di un entità rispetto ad altre in un dato ordine. I perfettismi di questo tipo, per poter dar conto del giudizio comparativo tra due individui, devono fare più o meno esplicito riferimento a un tipo ideale di essere umano a cui tutti dovremmo aspirare; si può immaginare che una persona di tal fatta abbia unito il massimo delle proprie facoltà all’eliminazione di tutti i difetti. Questa è la concezione intesa dal PCB quando parla di sana aspirazione all’eccellenza e insiste molto sul carattere umano del risultato: desideriamo migliorare le nostre caratteristiche in quanto esseri umani, perché una prestazione migliore, rivelando ciò che siamo capaci di fare, mette in mostra i caratteri che ci sono propri e, di conseguenza, anche ciò che noi stessi siamo rispetto agli altri. Ma è anche la concezione adottata da certi sostenitori della MCT, secondo i quali il superamento della condizione umana deve assumere la forma di una vera e propria purificazione, una sorta di “trascendenza tecnomediata” finalizzata a portare all’eccellenza le facoltà “positive” dell’essere umano scremando il corpo e la psiche dai loro limiti: il postumano perfetto avrà un corpo molto prestante, oltremodo bello e sempre giovane, una memoria fotografica infallibile, una capacità di concentrazione assoluta e un’intelligenza sbalorditiva.

Il perfettismo di questo tipo crea, a mio modo di vedere, dei grossi problemi morali e rischia di compromettere irrimediabilmente la bontà della MCT.

La mia tesi è che il perfettismo idealistico è da respingere per due motivi:

   Motivo morale: quando l’aspirazione all’eccellenza umana è informata da un ideale di perfezione, tende a sfociare nella lesione dell’altrui libertà. Il problema con chi desidera l’essere umano perfetto sorge quando a questo ideale si associa una qualità morale superiore, la quale poi è usata come termine di paragone per stabilire una gerarchia di dignità. Al vertice di questa gerarchia è posto l’umano perfetto, mentre alla base ci sono gli individui indegni che se ne discostano. Questa scala delle dignità va però a delegittimare l’autonomia individuale: i canoni della perfezione, in quanto ideali e immutabili, rendono difficile accettare che le altre persone possano essere libere di determinare la propria vita seguendo altri modelli. Chi non vuole realizzare il prototipo in questione è percepito come moralmente spregevole e inferiore, anche se all’atto pratico vive nel rispetto dell’ideale altrui. Questa delegittimazione diventa particolarmente pericolosa quando il perfettismo si fa perentorio e indiscutibile, e può facilmente configurarsi come intolleranza nei confronti non solo di chi non corrisponde affatto al canone di perfezione, ma soprattutto verso chi ha adottato un archetipo diverso. Nessun perfettismo forte, corredato con un modello compiuto di umanità, potrà mai convivere pacificamente con l’autonomia individuale, quindi, se quest’ultima è un valore da conservare, bisogna abbandonare ogni velleità perfezionista, umana o postumana che sia.
   Motivo razionale: il perfettismo produce linee di condotta inefficaci e tendenzialmente dannose. Siccome ha fede in un modello stabile a cui aspirare, chi crede e mira al perfetto nelle cose umane tende ad agire in base a una vera e propria ideologia dell’assoluto, la quale si mostra puntualmente di scarsa validità oggettiva (anche se, purtroppo, di grande forza persuasiva). Il modello di essere umano/postumano perfetto deve infatti far leva su alcune qualità fondamentali (bellezza, intelligenza) senza riconoscerne il carattere relativo: tende così a esasperare lo scarto tra teoria e prassi, a separare gli scopi dalla realtà dei fatti, e così rischia solo di creare lacerazioni, sotto forma di conflitti personali e contrasti nel tessuto sociale. Il perfettismo idealistico non può sperare di ottenere alcun risultato concreto a lungo termine perché il mondo, e a maggior ragione il mondo delle cose umane, è troppo variegato e dinamico per lasciarsi contenere all’interno di un’idea fissa: stabilire una volta per tutte la forma ideale del miglioramento semplicemente non conviene. Un esempio? La differenza tra chi usa la “fitness machinery” per ovviare alla sedentarietà delle società urbane, cercando di andare incontro alle caratteristiche del nostro organismo, e chi invece ne abusa per costringere il corpo in un ideale estetico irraggiungibile per definizione. Il primo riesce a migliorare la salute e a potenziare i muscoli, mentre il secondo va incontro a grossi rischi perché sovraccarica lo scheletro e il sistema cardiocircolatorio.

l’uomo realizzato (perfettismo debole): l’uomo che ha raggiunto la piena realtà secondo le predisposizioni di un’intrinseca finalità. Questa prospettiva presume l’esistenza e la conoscenza di uno scopo proprio dell’essere umano, però credo possa essere interpretata anche in un senso più debole. Se infatti distogliamo lo sguardo dalla specie umana e scendiamo al livello della singola persona, la perfezione positiva può essere intesa come la meta del processo di realizzazione di sé, il principio guida che informa l’agire autonomo volto al perseguimento della propria realtà (o identità che dir si voglia). Per questa via, l’unica a mio parere accettabile, ognuno ha la concreta possibilità di essere “perfetto” a modo suo, ponendosi come obiettivo la propria realizzazione. Solo così il desiderio di avere prestazioni superiori e, più in generale, tutti i biopotenziamenti assumono una legittimazione morale di principio; la MCT non deve essere un conforto per coltivare oscure velleità perfezioniste, ma un trampolino morale per la piena espressione di sé stessi e cioè una estensione, forse la massima estensione, del principio di autonomia individuale. Oltre la prospettiva dell’umanità eccellente, si propone dunque quella del progressivo miglioramento autonomo del singolo, sviluppo che può realizzarsi non solo, ma anche grazie alle nuove tecnologie. Ovviamente, questo non significa che saranno le tecnologie a renderci più liberi, perché la libertà non giace intorpidita in una più o meno ampia rosa di scelte possibili e deve concretizzarsi in una decisione per poter diventare effettiva. Però, chi vuole cogliere il valore emancipativo della MCT e delle tecnologie atte a manipolare il corpo e la psiche umani, dovrebbe optare per questa sorta di perfettismo positivo e smentire Jonas quando ci mette in guardia contro quel “carattere utopico immanente al nostro agire nelle condizioni della tecnica moderna”118.

La scienza del secolo xxi ci insegna che l’uomo, come ogni altro essere vivente, è un sistema instabile e aperto: se il transumanismo si appiattisse su una specie di “iperumanismo”, la MCT si ridurrebbe a una obsoleta accentuazione di quel “antropocentrismo separativo”119 che, avvallando l’esistenza di una presunta gerarchia morale intrinseca al mondo vivente, ha fornito nel corso della storia una giustificazione per l’oppressione, l’intolleranza e lo sterminio. Inoltre, chi propugna una visione perfezionista del postumano mostra di non aver compreso, e in modo fatale, la condizione di possibilità stessa della transizione: superare la condizione umana significa di fatto accogliere, vagliare e apprezzare i processi di ibridazione tra l’uomo e l’alterità. Homo sapiens, come del resto tutte le altre specie animali anche se in modo più limitato all’evoluzione filogenetica, è il frutto di una continua dialettica con l’ambiente vegetale, animale, tecnico, sociale e culturale in cui si è evoluto. Questo vuol dire che nel corpo e nel sangue umani non c’è proprio niente di puro, nessuna forma ideale perfetta da recuperare. Il nostro patrimonio genetico si è evoluto grazie a una ridondanza di mutazioni genetiche casuali potate via via dall’ambiente e, anche nel piccolo, ogni singolo essere vivente nel corso della vita si adatta, per quel che la sua plasticità consente, alle circostanze in cui si trova. Voler ancora oggi definire un’idea di come l’umano dovrebbe essere, non solo sembra un’ingiustificata rinuncia di quanto le scienze ci hanno insegnato, ma appare anche come un capriccio autistico, tanto obnubilante per la ragione quanto pericoloso per il valore della libertà individuale.

Che cosa implica il rifiuto dell’ideale assoluto e l’adozione di un perfettismo “debole”? Il superamento della condizione umana non dev’essere inteso come l’apertura di un percorso di emancipazione. Se il biopotenziamento è intrapreso come una libera scelta di manipolare il corpo e la psiche, ha tutte le carte in regola per configurarsi come l’accesso preferenziale e più promettente verso una maggiore comprensione del mondo e della vita. Per questo il sogno di potenziare le prestazioni psicofisiche non deve mai irrigidirsi nella pretesa di stabilire un’idea omologata di miglioramento.

Come ben scrive Marchesini:

“ciò che in una particolare situazione può essere un impedimento, in un’altra è un vantaggio: impossibile dirlo a priori.”120

Capitolo 8: Contro l’eterna giovinezza

8.1 Chi vuol vivere per sempre?

Veniamo ora alla seconda obiezione di principio, questa volta mirata all’uso delle tecnologie NBIC per il prolungamento della vita. Come abbiamo visto nella prima sezione (vedi Cap. 2) ci sono delle buone ragioni per supporre che presto verranno sviluppate nuove tecniche utilizzabili per ritardare in modo significativo il processo d’invecchiamento del corpo e della mente umani.

Il desiderio di vivere più a lungo e di mantenersi in buona salute non solo è un correlato del naturale istinto di sopravvivenza, ma è anche comunemente considerato un sano principio e una conseguenza logica del valore che tutti noi conferiamo alla vita nel suo complesso. Insomma, è ragionevole attendersi che queste tecnologie, ancor più di quelle destinate all’aumento delle prestazioni o alla manipolazione dell’umore, avranno subito una larghissima diffusione quando saranno disponibili, tanto da diventare d’uso comune. Dopotutto, il primo merito delle scienze mediche non è tanto quello di aver ampliato la conoscenza del corpo e della mente umani: noi rendiamo grazie alla medicina soprattutto perché ha diminuito l’incidenza della mortalità infantile (o comunque precoce) e ha sostanzialmente elevato la nostra speranza di vita media trascorsa in buona salute.

Ora, sebbene tutti vogliano poter vivere più a lungo e conservare il vigore psicofisico della giovinezza, bisogna anche evidenziare come le nuove tecnologie porteranno cambiamenti radicalmente diversi, e quindi non paragonabili, a quelli avvenuti nel corso del secolo scorso in ambito medico. La farmaceutica e le migliori condizioni igienico-alimentari hanno, infatti, aumentato l’aspettativa di vita di ben trent’anni, nei paesi occidentali, ma questo miglioramento è stato una conseguenza “naturale” della progressiva sospensione delle cause di morte prematura. Tramite le nuove tecnologie invece potremo davvero prolungare la durata massima della vita umana, disancorandola dal nostro orologio biologico naturale.

Senza dubbio, ogni alterazione radicale del ciclo della vita solleva problemi pratici ed etici, sia per il singolo sia per la società, problemi che non possono essere facilmente liquidati. Però, già all’intuizione sembra quantomeno bizzarro voler argomentare contro il desiderio di vivere più a lungo e in buona salute. Eppure, certe frange bioconservatrici non si sono sottratte all’arduo compito: lo stesso PCB solleva un argomento volto a screditare la MCT, quando è interpretato come un lasciapassare morale per il prolungamento della vita.

8.2 Il ciclo significante della vita e l’argomento del nichilismo

Prima osservazione generale: La vita è una sinfonia.

Secondo il PCB, nel prospettare per se stessi una vita più lunga, non bisogna dimenticare che la nostra esistenza non è una quantità di tempo omogeneo. Gli anni della vita umana non sono una cifra neutra, un intervallo da riempire tra la nascita e la morte: se fosse così ogni stagione varrebbe l’altra, in un susseguirsi meramente seriale di “spazi di possibilità esistenziale” generalmente intercambiabili senza troppi problemi. L’arco vitale è invece una successione strutturata di parti più o meno ben distinte, provvista di un significato intrinseco dettato dall’ordine temporale delle singole parti e dalle relazioni tra esse. Ovviamente le parti in questione non sono altro che i grandi periodi della nostra esistenza biologica: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità, la vecchiaia. Questo ciclo, che fin ad oggi è stato un fatto da accettare senz’altro, è la forma atavica della nostra esistenza e fa da sfondo e guida al tempo che abbiamo a disposizione: esso è come una sinfonia, il cui senso dipende dal susseguirsi dei vari movimenti che la compongono. C’è dunque già da sempre una forma dell’esistenza umana, un destino naturale dettato dal nostro patrimonio genetico, un’impalcatura predeterminata che i singoli individui sono chiamati ad arricchire con un senso ulteriore, personale. Secondo il PCB, modificare la forma di queste parti comporterebbe forti implicazioni sul senso del tutto: prolungare la vita e la durata del vigore psicofisico potrebbe rovinare il disegno naturale della nostra esistenza, e quindi non è soltanto un mero “vivere di più”, ma un vero e proprio “vivere in modo diverso”. Le tecnologie che vanno ad agire sul ciclo biologico di nascita-riproduzione-morte, mettono nelle nostre mani la possibilità stessa di dare un senso all’esistenza, perciò siamo chiamati a valutare con molta attenzione le conseguenze che il soddisfacimento di una volontà miope potrebbe avere sull’intelligibilità e il valore della vita.

Seconda osservazione generale: Prolungamento della vita e brama d’immortalità.

“Il desiderio di estendere la propria vita in generale, piuttosto che combattere le singole malattie e gli acciacchi che abbreviano le nostre vite, è una dichiarazione di opposizione alla morte in quanto tale.”121

Con queste parole il PCB è molto chiaro: sebbene le tecnologie NBIC di fatto non promettano l’immortalità, è proprio il desiderio di vivere per sempre che ci spinge a sviluppare varie tecniche per allontanare l’ora finale. La presenza di questo desiderio, che può essere esplicito o implicito, è dimostrato dall’attuale percezione della senescenza come una malattia: siamo arrivati a un punto in cui l’invecchiamento è un problema da risolvere anziché una parte costitutiva della vita umana. Ma

“una vita vissuta dal principio sotto l’influsso delle tecniche anti-invecchiamento è una vita vissuta in evidente contrasto con le limitazioni dettate dalla mortalità”122.

Il PCB usa queste due osservazioni per sostenere una tesi classica:

Tesi del Memento Mori: Sono proprio i limiti e la struttura naturale della vita a dare un significato alla nostra esistenza. La morte stessa è il suggello di tale significato proprio perché ci impone di vivere al suo cospetto. Infatti, la realtà della morte, vale a dire la coscienza della nostra finitezza, è condizione di possibilità del senso della vita e, quindi, dei valori morali. La percezione dei propri limiti e la realtà concreta della cessazione dell’esistenza, sono i due promemoria che ci spingono a vivere appieno e a prenderci cura delle cose che facciamo.

Indico, non senza provocazione, l’argomento fondamentale del PCB come argomento del nichilismo e credo che sia corretto schematizzarlo così:

   Principio Morale: la vita è un valore.
   Fatto: esiste un ritmo naturale nel ciclo della vita, un’armonia nel susseguirsi delle generazioni, un equilibrio tra ascesa e declino.
   Constatazione: questo fatto è una condizione di possibilità, una cornice di senso che apre all’esistenza uno spazio significante.
   Nucleo dell’argomento: “Solo l’invecchiamento e la morte ci ricordano che il tempo è essenziale”123; queste sono le certezze che ci danno la forza di trascendere la nostra permanenza impegnandoci in qualcosa di duraturo.
   Implicazione morale: Alimentando la brama di lunga vita e vigoria duratura rischiamo di perdere il senso della nostra esistenza. In generale, usando le nuove tecnologie per soddisfare il desiderio dell’eterna giovinezza, rischiamo di annullare proprio ciò che dà coerenza e significato alle nostre azioni.

8.3 Perché l’argomento del nichilismo è inefficace

Come rispondere a quest’argomento? Dobbiamo forse rinunciare al prolungamento della vita e del vigore perché così facendo la nostra esistenza ne perderebbe in qualità?

Prima bisogna fare alcune precisazioni su entrambe le osservazioni sollevate dal PCB. Per quanto riguarda il valore intrinseco alla forma della vita umana, così come si è evoluta nel corso della nostra storia genetica, ci troviamo di fronte a due argomenti totalmente opposti. Da una parte c’è la MCT, che afferma senza mezzi termini il dovere di superare la condizione umana come principale prospettiva di miglioramento: nell’ottica transumanista non c’è alcun problema a voler prolungare indefinitamente la propria età matura, ad esempio, se ciò vuol dire vivere meglio ed evitare le sofferenze dell’invecchiamento. Dall’altra c’è chi sostiene il valore intrinseco della condizione umana in generale, come essenza e fondamento dei nostri valori più importanti, e quindi vede nel biopotenziamento per scopi non terapeutici una minaccia epocale da fermare a tutti i costi. È evidente che il contrasto qui trascende il caso in esame e pertanto deve essere affrontato su un terreno diverso, per il quale rimando al Capitolo 10 dedicato specificamente al concetto di natura umana.

Passando alla seconda osservazione generale del PCB, per la quale il desiderio di prolungarsi la vita nasconderebbe una vera e propria negazione della mortalità, di primo acchito sembra un giudizio arbitrario: così come il desiderio di avere prestazioni superiori non significa per forza voler diventare onnipotenti, quello di vivere più a lungo e in buona forma non equivale alla brama d’immortalità. In ogni modo, cosa dobbiamo intendere per “immortalità”? In che senso è possibile parlare di eterna giovinezza, quando siamo chiamati a giudicare i risvolti morali dell’applicazione delle nuove tecnologie?

L’immortalità è una delle credenze più diffuse nelle filosofie e nelle religioni sia occidentali che orientali, ma è anche vero che esistono varie concezioni di vita eterna, spesso incompatibili tra loro. Per brevità e per evitare confusioni è meglio schematizzarle in grandi categorie:

Incapacità di morire: quest’accezione prende la parola alla lettera, e interpreta l’immortalità come la condizione di ciò che è eterno in quanto costretto a vivere per sempre. Implica la totale invulnerabilità e ha un interesse puramente speculativo e teologico; data la sua impraticabilità, possiamo senz’altro tralasciarla.

Immortalità dell’anima: poi c’è la vita eterna tradizionale, tipica di tutte le fedi religiose secondo le quali la morte segna la fine di un ciclo di vita e il trapasso ad un piano esistenziale trascendente. Questo tipo d’immortalità è di solito parziale perché si riferisce a una parte di noi che sopravvivrebbe alla morte (tipicamente l’anima).

Perpetuità psicofisica: infine possiamo distinguere un senso debole d’immortalità e interpretarla come la capacità di vivere indefinitamente, senza le restrizioni imposteci dalla caducità congenita del corpo. Se si adotta quest’accezione il termine stesso “immortalità” è usato in modo improprio, perché il concreto prolungamento della vita in condizioni psicofisiche ottimali non implica per niente l’eternità, che è un concetto astratto, e tanto meno l’impossibilità di morire. La perpetuità psicofisica si presenta non solo come il naturale prosieguo della ricerca medica, ma è anche adatta alla concezione di salute dell’OMS.

Ora, sebbene gran parte dei tecnoprogressisti sembri coltivare un forte desiderio di sconfiggere la morte in modo definitivo124, in realtà l’unica forma di “vita eterna” perseguibile con i mezzi tecnologici è quella più debole della perpetuità psicofisica. Non a caso, la convinzione di chi sostiene la MCT è che esistano tanti buoni motivi per poter vivere di più e che quindi la morte sia per lo più un male. Ne sia prova, in generale, il motivo usato per difendersi dall’attacco del memento mori, che suona quasi come un appello indefesso all’istinto di sopravvivenza. Con uno slogan: “Vivere è meglio che morire”.

Riporto qui le parole di Max More, uno dei fondatori dell’estropianesimo, la frangia libertaria del movimento transumanista:

“Alcuni temono che la vita non avrà più senso senza le sue stagioni tradizionali causate dall'invecchiamento e dalla certezza della morte. Gli estropici considerano tale atteggiamento una razionalizzazione comprensibile, un meccanismo psicologico per poter accettare ciò che fino ad ora è stato inevitabile. Non c'è dubbio che la conquista di aspettative di vita postumane richiederà una vasta revisione del nostro modo di vivere, delle nostre istituzioni e della nostra idea di sé, ma secondo noi lo sforzo è più che giustificato. La prospettiva di una vita illimitata offre nuovi orizzonti, possibilità finora inesplorate di crescita illimitata. L'assenza d’invecchiamento e morte non priverà la vita di significato, esattamente il contrario. Il senso della vita e il suo valore risiedono nel continuo processo di creazione e distruzione delle sue forme, quel processo di auto-superamento che è la negazione della stagnazione. Inoltre, le motivazioni che ci spingono verso la trascendenza sono troppo forti e radicate nella vita stessa per essere ignorate. Lo vediamo nella nostra fame di eroi da ammirare e, in modo distorto ed esternalizzato, nella persistenza e nell'ubiquità della religione. E' meglio accettare razionalmente tali forze e sfruttarle a nostro vantaggio che ignorarle o tentare di sradicarle.”125

More si limita ad accusare la tesi del memento mori di essere un mero meccanismo psicologico, ma non si accorge di usarne uno egli stesso, quando sostiene che il senso della vita consista in un processo di auto-superamento senza fine: ciò potrebbe anche essere solo un indice molto espressivo dell’atteggiamento fiducioso con cui il bioprogressismo affronta la problematica, ma, di fatto, trascura la circostanza che una crescita illimitata possa ad un certo punto perdere senso ed essere poco diversa dalla completa stagnazione. La cosa che mi preme evidenziare circa le parole di More, è la presa di distanza dalla religione, interpretata solo come un’autorità oscurantista o come un’espressione arcaica di quelle “motivazioni che ci spingono alla trascendenza” così radicate nella stessa vita. In generale, tutto il movimento transumanista si pone come sostanzialmente laico e razionalista. Ecco due passi molto espliciti, estratti da altrettanti documenti fondamentali:

Gli estropici sostengono la ragione, la curiosità critica, l'indipendenza e l'onestà intellettuale […] Preferiamo l'analisi critica alle illusioni vaghe ma confortevoli; preferiamo l'empiricità al misticismo; preferiamo la valutazione indipendente alla conformità. Sosteniamo una specifica filosofia, ma non accettiamo dogmatismi, siano questi religiosi, politici o personali, perchè il dogmatismo porta con sé la fede cieca e l'irrazionalità e trivializza il valore degli esseri umani. […]Non accettiamo alcuna autorità intellettuale superiore. Nessun individuo o istituzione o libro o principio può essere la fonte o lo standard della verità. Nessuna idea è infallibile ed è quindi necessario che ogni idea possa essere sfidata, messa in discussione e sottoposta ad esperimenti. Rivelazione, autorità ed emozioni, non sono accettabili come fonti d’informazioni.126

Al contrario di quanto proposto da molte religioni, i transumanisti vogliono realizzare i propri sogni in questo mondo e non con l’intervento di forze sovrannaturali, ma con un’attitudine razionale ed empirica ed il continuo sviluppo del potenziale dell’umanità dal punto di vista scientifico, tecnologico ed economico. Persino quelli che una volta erano soggetti esclusivi della religione, come immortalità ed onniscienza, sono ora soggetti di discussione per i transumanisti e sono diventati mete teoricamente raggiungibili!

Il transumanismo è una filosofia naturalistica. Fino ad oggi, non è stata provata l’esistenza di forze sovrannaturali, né di fenomeni spirituali. Di conseguenza, i transumanisti preferiscono basarsi sul metodo scientifico come strumento per studiare ed influenzare il mondo che ci circonda, pur prendendo atto delle limitazioni della scienza, la quale resta lo stesso la base del pensiero transumanista.127

Non solo, credo sia possibile affermare di più: chiunque abbia intenzione di superare la condizione umana prolungando la vita e rallentando l’invecchiamento non sta parlando d’immortalità dell’anima. Ecco come Nick Bostrom, uno dei filosofi di spicco nel movimento transumanista, parla della sua “vita eterna”:

“Possiamo concepire, almeno in astratto, organismi e piaceri estetico/contemplativi la cui beatitudine (blissfulness) ecceda di gran lunga ciò che qualsiasi essere umano abbia finora sperimentato. Possiamo immaginare entità capaci di raggiungere un livello di maturità e sviluppo personale molto più alto di quello umano, proprio perché hanno la possibilità di vivere centinaia o migliaia di anni in pieno vigore psicofisico.”128

Nella filosofia morale di Bostrom il valore cardine consiste proprio nell’espandere le proprie esperienze, anche e soprattutto al di là di quelle accessibili al corpo e alla mente umani attuali. Ma “centinaia o migliaia di anni”, pur essendo un arco esistenziale più che rispettabile, non sono affatto l’eternità e non hanno nulla a che vedere con l’immortalità. Leggendo i testi degli autori che si dichiarano transumanisti, sembra evidente che, quelli di prolungare la vita e rallentare l’invecchiamento, siano in realtà solo due scopi accessori, perseguiti solo in quanto conferirebbero la possibilità di avere più tempo a disposizione per fare maggiori esperienze e realizzare tutti quei progetti che sarebbe impossibile racchiudere nell’arco di vita “biologico” riservatoci da madre natura.

Un esempio su tutti è la speranza di sviluppare il mind uploading, una tecnologia ipotetica basata sulla dottrina funzionalista della mente. In breve, se gli eventi mentali sono funzioni, allora non dipendono dal substrato materiale su cui vengono implementati, e di conseguenza è teoricamente possibile trasferire l’intera mente umana dal cervello su un altro sistema isofunzionale, come un calcolatore elettronico specificamente progettato. Grazie a una futuristica scansione totale della struttura sinaptica del nostro cervello, sarà possibile continuare a vivere anche dopo la morte biologica del nostro corpo, magari grazie a un cervello artificiale o addirittura direttamente all’interno di un calcolatore elettronico. Al di là del carattere puramente speculativo e degli enormi dubbi sul concetto di identità personale sollevati da un’ipotesi del genere, la cosa importante da notare ora è che la motivazione alla base del desiderio di vivere più a lungo di chi adotta la MCT, non corrisponde nemmeno all’impossibilità di morire. Inoltre, non credo sia sbagliato affermare che la prospettiva immortalista del primo tipo, se prospettata per la razza umana, incontri tali difficoltà di ordine pratico e sia così distante dalle attuali capacità tecniche, che un’analisi delle opportunità esistenziali e morali ad essa conseguenti si dilegui subito in un mare magnum di speculazioni, sicuramente non navigabile in questa sede.

Per chiudere, un’ultima citazione di Bostrom:

I transumanisti vogliono più vita perché vogliono fare, imparare e sperimentare sulla propria pelle più di quanto sia possibile negli anni normalmente concessi ad un essere umano. Vogliamo continuare a crescere, a maturare e a svilupparci per molto più degli ottant’anni (ad essere fortunati!) dettati dalla storia evolutiva della nostra specie.[…] La posizione transumanista sull’etica della morte è chiara: la morte dovrebbe essere una scelta volontaria. In altre parole, chiunque dovrebbe avere il diritto di estendere la durata della propria vita se così desidera […]. Di conseguenza, anche l’accesso all’eutanasia volontaria dovrebbe essere considerato un diritto fondamentale.129

Non credo ci sia molto altro da aggiungere, quindi passiamo subito alle conclusioni.

8.4 Solo per eutanasia

L’aspirazione ad assumere il controllo della propria morte è una motivazione morale capace di sostenere il desiderio di prolungare la vita ed eliminare l’invecchiamento senza andare in contrasto con la tesi del memento mori. Questa motivazione, che può dirsi lo stesso transumanista in quanto pienamente compatibile col MCT, interpreta il superamento della condizione umana non come un’emancipazione dalla morte tout court, bensì come l’appropriazione definitiva del senso della propria vita.

Per chiarire questo pensiero bisogna rifarsi brevemente al concetto di morte come possibilità esistenziale. Secondo la tesi del memento mori, la morte non è solo il trapasso a una vita ultraterrena (concezione religiosa) o la fine congenita del ciclo biologico (concezione naturalista), ma una possibilità che accompagna quotidianamente l’esistenza dell’uomo (forse l’unico animale cosciente del proprio essere mortale). La certezza della morte assurge al ruolo di condizione esistenziale nella forma di una costante minaccia, una continua e latente angoscia premonitrice del nostro ultimo giorno su questa Terra. La realtà della propria fine ci predispone alla consapevolezza di essere contingenti, ed è perciò che può e deve servirci da stimolo per dare un senso compiuto alla nostra vita, per spendere il nostro tempo nel modo migliore.

Ora, questa concezione interpreta la morte come “possibilità”, ma le attribuisce un valore in quanto “certezza”: cosa vuol dire? Forse che la morte è “un’evenienza ineluttabile”? Ma questa espressione, oltre ad essere una contraddizione in termini, non si sposa per niente con la tesi del memento mori: la possibilità esistenziale della morte non è una mera occasione, un avvenimento statistico. La coscienza del nostro limite supremo consiste piuttosto nella sicurezza della sua inesorabilità. Solo così la caducità insita nella condizione umana trascende dall’evenienza ipotetica del “potrebbe accadere” e si configura come una certezza sulla quale possiamo e dobbiamo contare per aprirci uno spazio di libertà. Solo in questo modo possiamo affermare che il nostro decesso sarà la parola fine del racconto della nostra vita, e solo così la morte diventa l’ultimo atto che dà senso compiuto a un’esistenza.

Ma allora, quale miglior modo di realizzare questa possibilità esistenziale, se non decidendo per la propria morte, scegliendo in piena autonomia il momento giusto per chiudere l’esistenza su questa terra? Con questo non voglio fare un’apologia del suicidio. Voglio però affermare che la tesi del memento mori si fa ancor più vera e pregnante quando la propria fine diventa il frutto di una scelta personale: finché essa resterà in mano al caso o al destino, non potrà sancire il significato di un’esistenza se non in modo contingente. Soggiogare la morte allora non significa eliminarla del tutto (cosa che sembra addirittura impossibile all’atto pratico), bensì toglierle quel carattere di fatalità nascosto da sempre nel suo seno. Per questa via è possibile interpretare il postumano come quell’umano che ha fatto della morte il vero suggello della propria esistenza: egli non la teme né la rifugge proprio perché sa che sarà una sua scelta. Ciò significa anticipare davvero la propria fine dal punto di vista emotivo, ma senza caricarsi d’angoscia; sentire il dovere di prendere possesso della finitezza umana come atto ultimo del percorso di emancipazione.

Quindi, è vero che la coscienza dell’essere finiti funziona da condizione di possibilità per il senso della nostra vita, ma è anche vero che, se si escludono i suicidi, questa possibilità si è sempre concretizzata a prescindere dalla nostra volontà, spesso mortificando le speranze e i progetti di chi aveva ancora molto da vivere e del suo prossimo.

Per concludere, da una parte l’obiezione del PCB funziona solo contro l’immortalismo ingenuo di chi coltiva l’ideale della vita eterna illudendosi di poter conservare al contempo la propria identità o la propria umanità, ma chi sostiene la MCT punta proprio a superare la condizione umana in direzione di un non meglio specificato essere post-umano: contro questa dottrina non è sufficiente obiettare “in tal modo si perde la condizione umana”! Inoltre, la tesi del memento mori può funzionare bene contro chi rinnega la morte del tutto e si rifiuta di interpretarla come un limite e, quindi, una possibilità. Ma allo stato attuale, e ancora per qualche tempo, non possiamo nemmeno immaginare come diventare completamente invulnerabili.

D’altra parte, chi adotta la MCT sbaglia a parlare di vita eterna o immortalità. Questi sono termini impropri se usati per indicare il drastico innalzamento della speranza di vita massima prevedibile in base al galoppante sviluppo delle scienze mediche. Anche prendendo in considerazione prospettive estremamente speculative, quali il mind uploading, è del tutto inopportuno indicarle come forme di immortalità, perché se la vita cambia forma può cambiare con essa anche la morte, ed è sempre possibile immaginare la fine di un’esistenza postumana, per quanto longeva. Per il tema in questione, il vero superamento della condizione umana non si può trovare nell’utopia di sconfiggere la morte in modo definitivo, ma nel rendere concreta la possibilità, tecnica e giuridica, di sottrarre al caso l’ultima parola sulle nostre vite.

In ogni modo, se è possibile sostenere al contempo la tesi del memento mori e la MCT, e se questo non implica per forza delle velleità “immortaliste”, allora l’argomento del nichilismo è sostanzialmente indebolito.

Capitolo 9. Benessere e autenticità: alcuni dubbi sul biopotenziamento del nostro stato d’animo.

9.1 Il dedalo della psicofarmacologia cosmetica.

Veniamo ora alle obiezioni sollevate contro l’uso delle tecnologie NBIC per migliorare il proprio umore. La ricerca farmaceutica applicata ai processi neurali del comportamento sta facendo passi da gigante nello sviluppo di sostanze capaci di alterare l’umore e manipolare la memoria umana. Queste nuove possibilità sembrano porre un’insormontabile congerie di problemi morali, che spaziano dal dilemma del libero arbitrio al dubbio sull’autenticità delle nostre emozioni. Si tratta senza dubbio di una prospettiva alquanto intricata e di difficile soluzione, nei confronti della quale il mio proposito si limita al tentativo di portare un po’ di chiarezza tra le molteplici questioni coinvolte. Data la fattibilità di certi interventi sulla nostra psiche, chiedersi se sia moralmente accettabile usare mezzi come gli psicofarmaci per cancellare il ricordo di eventi sgradevoli o sollevare il proprio stato d’animo, anche a prescindere da esigenze di carattere terapeutico, è una domanda che non può trovare risposta immediata e generale. Questo ostacolo intellettuale è dovuto in larga parte al fatto che molte altre domande, per così dire, preliminari a quella succitata restano ancora in sospeso. E quando dico “ancora”, intendo riferirmi a un lasso di tempo che ha dell’epocale: domande del tipo “qual è il modo giusto per migliorare il nostro umore?” e “che senso ha potenziare le nostre emozioni a prescindere dalla terapia?” rimandano pericolosamente alla questione esistenziale “che cos’è la felicità?”, questione che impegna il pensiero umano fin dalle sue stesse origini. Tuttavia, credo sia possibile addentrarsi nell’argomento senza troppe pretese, se non il desiderio di portare alla luce certe implicazioni nascoste nel nostro modo di pensare, e la speranza di cercare una maggiore coerenza di opinioni, evitando al contempo di fissare risposte definitive.

Ora, nel trattare i risvolti morali della psicofarmacologia cosmetica, conviene sempre tenere ben distinti due ambiti: da una parte c’è il libero individuo che vuole ottenere ed esercitare un maggior controllo sulla propria vita e quindi anche sulle proprie esperienze e il proprio stato d’animo; dall’altra abbiamo i risvolti propriamente morali di tale controllo, circoscritti alle implicazioni sociali del biopotenziamento della psiche. Questa distinzione ci viene in aiuto perché consente subito di ridimensionare un’intera classe di problemi sollevando un argomento molto semplice e diretto.

L’argomento dell’etica liberale: In un’etica che (1) ha come principio la libertà personale, e (2) garantisce ad ogni individuo il diritto di poter perseguire la propria felicità, l’uso di tecniche finalizzate a recuperare/ raggiungere il benessere emotivo e psichico personale non dovrebbe essere problematico, purché le conseguenze restino circoscritte all’ambito del privato e non danneggino il prossimo. In buona sostanza, ogni cittadino adulto dovrebbe essere libero di cercare la felicità con i mezzi che ritiene più appropriati.

Questa libertà nella ricerca del benessere privato è strettamente correlata al diritto all’autonomia individuale dei membri di una società democratica, cosa che, nel caso in esame, rende alquanto difficile stabilire dei limiti morali. Se avessi a disposizione una qualche sostanza capace di indurmi uno stato di benessere senza causare gravi effetti collaterali, perché dovrei ritenerne immorale l’uso? Se ci sono ricordi così sgradevoli da provocare continue sofferenze, perché non dovrei usare qualsiasi mezzo per recuperare la mia tranquillità mentale? Anche se qualcuno non fosse d’accordo con l’impiego di mezzi artificiali per l’alterazione del proprio umore e della propria memoria, non potrebbe di certo affermare che io stia compiendo un atto indegno: al massimo potrebbe dirmi che sto sbagliando nei confronti di me stesso, ma avrebbe non poche difficoltà a dimostrare che non ho il diritto di agire in quel modo. Dopotutto, esistono altre tecniche per la manipolazione della psiche, tecniche che sembrano non comportare alcun dilemma morale. La psicoterapia è una di queste. Anzi, il bioprogressista potrebbe addirittura sostenere che le tecniche NBIC siano più etiche perché dipendono esclusivamente da una scelta personale, mentre le sedute dallo psicanalista comportano la necessità di delegare parzialmente a un’altra persona il controllo sulla propria felicità.

È difficile rispondere negativamente all’argomento dell’etica liberale senza propendere per una limitazione, anche solo parziale, dell’autonomia individuale. Tuttavia veti del genere sono di fatto sostenuti e perfino inclusi nei codici giuridici di molte nazioni, e non interessano solo persone incapaci di intendere e di volere o comunque immature, ma anche cittadini adulti e con diritto di voto. Il caso di studio a cui alludo è il consumo di sostanze stupefacenti, fenomeno al quale l’uso delle nuove tecnologie NBIC per il miglioramento dell’umore potrebbe essere paragonato. Molte droghe sono i mezzi tradizionali usati dall’uomo per alterare la propria emotività e contengono principi attivi psicotropi culturalmente accettati (come l’alcol nel nostro paese); altre invece sono di nuovissima concezione e vengono vendute come farmaci, mentre altre ancora sono illegali e soggette a campagne politiche di repressione e pubbliche condanne. Alla base di tale squilibrio legale e morale dobbiamo riconoscere una confusione concettuale molto grave per una società che voglia definirsi “civile”: grave non solo perché è indice dell’atteggiamento ipocrita con cui molte persone affrontano il problema, ma soprattutto perché ha tutta l’aria di non prendere sul serio un tema di grande importanza per la vita di tutti noi, quello del benessere personale.

Il parallelo con le sostanze stupefacenti impone una direzione nell’analisi dell’uso di tecnologie NBIC per il miglioramento del proprio umore: onde evitare di ricadere in distinzioni infondate o traballanti (come quella tra stupefacenti, farmaci e droghe tradizionali), conviene considerare in generale i risvolti morali che intercorrono tra noi stessi e il modo in cui ci rapportiamo col nostro benessere in tutte le pratiche di modificazione dell’umore, tenendo a mente la distinzione tra etica pubblica e privata già espressa nell’introduzione. Questo approccio generale è necessario perché altrimenti si corre il rischio di ritornare subdolamente alla distinzione terapia/miglioramento per discriminare alcune pratiche come biasimevoli mentre altre, con effetti simili o identici, sono giuste o comunque neutre. Se infatti l’imputazione morale non può ricadere sugli strumenti perché deve riconoscere spazio alla piena responsabilità dell’agente, allora non sarà possibile decidere in anticipo se l’applicazione di una determinata tecnica sia riprovevole o approvabile

Pertanto, l’analisi dovrebbe procedere più a fondo, fino a indagare le più intime e, allo stesso tempo, storiche cornici concettuali a partire dalle quali l’uomo conferisce senso alla propria vita. Ovviamente, non è questa la sede per spingersi in una ricerca del genere, però mi preme sottolineare ancora una volta come il problema del biopotenziamento funzioni come spunto per ripensare seriamente alcuni dei problemi fondamentali della nostra vita. Ai fini di questa tesi, conviene attenersi il più possibile al tema centrale da cui siamo partiti, cioè la MCT: è giusto utilizzare mezzi tecnoscientifici per migliorare il proprio stato d’animo? Ma, soprattutto, biopotenziare il proprio umore significa davvero migliorare la condizione umana? Procediamo senz’altro ad esaminare gli argomenti sollevati dal PCB.

9.2 Il tecnoedonismo e l’importanza di ricordare in modo appropriato e veritiero.

Supponiamo di voler eliminare il ricordo di un evento traumatico perché non vogliamo vivere col peso di ciò che è accaduto. Per questo esempio dobbiamo immaginare sia le motivazioni moralmente “positive” sia quelle “negative”: potremmo essere stati vittime di violenze e non voler più rivivere mentalmente quei terribili attimi; ma potremmo anche essere angosciati dal senso di colpa per qualcosa che abbiamo fatto, oppure dal rimpianto per una decisione non presa.

Ovviamente, manipolare i ricordi in questo modo significa di fatto falsificare parzialmente le proprie esperienze e, siccome i nostri giudizi sono in parte influenzati dalle sensazioni associate a certi eventi, si opera di fatto una dissociazione tra la realtà e il carico emotivo che essa, a cose normali, comporta. Questa dissociazione può rappresentare un problema morale?

Supponiamo di adottare un’etica per la quale la felicità consiste nella ricerca del piacere e nell’assenza di dolore emotivo: secondo il nostro modo d’intendere la vita, ogni sofferenza psichica, quale ne sia la causa, è negativa e va eliminata con qualsiasi mezzo. In base a questa regola di vita, per raggiungere la felicità dovremmo non solo evitare le brutte esperienze, ma anche procedere a rimuovere tutti i ricordi di quelle esperienze spiacevoli che, nostro malgrado, ci capitano nel corso dell’esistenza, e non importa se per riuscirci usiamo le tecnologie NBIC. Agli occhi del PCB, il desiderio di aumentare il controllo sulla propria memoria va ad appiattirsi in questa sorta di “tecnoedonismo”, una mentalità che tende alla ricerca del puro piacere (scevro da ogni giustificazione di merito) ed è indifferente ad altri valori molto importanti, uno sopra tutti quello dell’autenticità della propria vita.

“Armati con i nuovi poteri per alleviare le sofferenze relative ai brutti ricordi, potremmo arrivare a interpretare ogni dolore psichico come superfluo e, nel processo, ritrovarci a perseguire una felicità meno umana: una felicità immemore, indifferente al tempo e agli eventi, statica nei confronti delle vicissitudini della vita. [...] Infine, dobbiamo chiederci che vita sarebbe, e che tipo di persone diventeremmo, se avessimo solo ricordi felici, con tutte le difficoltà, le incertezze e gli errori tagliati via dalle nostre vite per come noi le ricordiamo e le consideriamo. [...] Avere solo memorie felici sarebbe una benedizione… e una maledizione. Niente ci inquieterebbe, ma probabilmente diventeremmo delle persone superficiali, che non cadono mai negli abissi della disperazione perché hanno scarso interesse nella piena felicità umana e nelle vite complicate di chi le circonda. In definitiva, avere solo memorie felici non è essere felici in un modo veramente umano. È semplicemente essere liberi dalla sofferenza… un desiderio comprensibile visti i molti problemi della vita, ma un’aspirazione alquanto bassa per chi è in cerca di una felicità veramente umana.”130

Dunque, secondo il PCB, dissociare i ricordi dalle emozioni e cancellare la memoria di esperienze sgradevoli è sbagliato per due motivi fondamentali:

La capacità di ricordare nel bene e nel male fa parte dell’essere umani. Alterarne deliberatamente il funzionamento significa compromettere la nostra natura. È moralmente sbagliato interferire con la natura umana.

Manipolare i ricordi può contribuire molto alla salute mentale di una persona. Ma eliminare i ricordi spiacevoli significa scegliere di vivere nella falsità, evitare di affrontare il mondo per come è realmente e rinchiudersi in un guscio protettivo di menzogne. Questa scelta comporta la perdita della propria autenticità.

Per sostenere le sue tesi il PCB punta molto sul carattere specifico di ciò che è umano; si tratta di una mossa comune a gran parte della critica bioconservatrice e ritorna in molti argomenti. Ma questa strada va a toccare la MCT nel suo senso più generale, quindi merita un’intera discussione a parte che affronterò nel prossimo capitolo. Per quanto riguarda invece l’opportunità di ricordare in modo appropriato e veritiero, ci troviamo di fronte a un contrasto tra valori molto forti. Per essere coerenti con una visione del genere infatti, bisogna accettarne tutte le conseguenze, anche quella che ci impedirebbe moralmente di alterare i nostri ricordi nella consapevolezza di essere destinati a vivere una vita infelice o comunque gravemente compromessa. Ma per molte persone ciò potrebbe sembrare alquanto problematico e, in effetti, di fronte a certi grandi traumi, pochi avrebbero la fermezza di conservare un barlume di equilibrio psichico. Il valore dell’autenticità si scontra con quello del benessere personale: siamo veramente disposti ad affrontare il ricordo di qualsiasi evento traumatico, sacrificando la nostra sanità mentale pur di vivere appieno la realtà che ci circonda? È meglio affrontare il dolore, stringendo i denti e combattendo con tutte le proprie forze per farsene una ragione, oppure soffiarlo via mediante una tecnica che ci consente di dimenticarlo?

Non credo si possa dare una risposta valida per tutti. L’unica soluzione accettabile, a mio modo di vedere, sta nel fare appello all’argomento dell’etica liberale: possiamo trovare la soluzione solo dentro di noi, anche perché non è possibile stabilire una soglia di sofferenza minima universale oltre la quale sarebbe moralmente giusto optare per l’intervento tecnico. Siamo dunque chiamati a valutare, personalmente, dove abbiamo intenzione di collocarci tra due estremi. Da una parte abbiamo la concezione “tecnoedonista”, che ci consiglia di eliminare ogni sofferenza grazie a un totale controllo su se stessi e sui propri ricordi. Dall’altra c’è invece la rappresentazione di un essere umano in balia della propria memoria e impotente nei confronti dei ricordi dolorosi del proprio passato. Secondo il PCB noi non dobbiamo abbracciare nessuna di queste due visioni radicali, ma sforzarci di vivere bene nella piena autenticità della vita. È vero, non possiamo scegliere tutto ciò che ci accade, certi eventi capitano e non possiamo farci niente. Tuttavia, nonostante questi avvenimenti indesiderati facciano parte giocoforza della nostra identità, abbiamo una certa libertà nel decidere come affrontare la loro memoria. L’avvertenza morale del PCB allora è quella di conferire significato, nei limiti del possibile, a questi ricordi, per comprenderli come parte integrante delle nostre vite. Nella volontà di cancellarli, o di separarli dalle emozioni, per quanto traumatiche, che hanno suscitato, abbandoniamo una parte reale della nostra esistenza e, con essa, sacrifichiamo sull’altare della pace dei sensi l’autenticità delle nostre esperienze.

Questa prospettiva è difendibile, ma non è abbastanza forte da consentirci di obbligare il prossimo ad accettarla. Inoltre, e questa osservazione non è secondaria, la MCT non implica il tecnoedonismo. Chi vuole usare i mezzi tecnoscientifici per superare i propri limiti emotivi, non necessariamente lo fa perché crede che il piacere sia l’unico bene possibile e il dolore vada eliminato a tutti i costi. Comunque, è tra questi due estremi che dobbiamo muoverci, e ognuno, trattandosi della propria vita, ha il diritto di trovare il proprio percorso: alcuni sceglieranno la via del “tecnoedonismo”, altri invece saranno devoti all’autenticità, e forse la maggioranza opterà per una via di mezzo, scegliendo di convivere con gran parte dei propri ricordi, anche quelli spiacevoli, purché non costituiscano un peso insopportabile.

9.3 La felicità fittizia

Un argomento parallelo a quello dell’autenticità dei ricordi, è rivolto dal PCB contro l’uso dei farmaci per migliorare l’umore ed eliminare le sofferenze emotive: se induciamo tecnicamente una modifica al nostro stato d’animo, dovremmo considerare in qualche modo false o falsanti le sensazioni provate durante i momenti in cui queste sostanze esercitano il loro effetto; la conseguente gratificazione porterebbe sempre con sé la perplessità di provare qualcosa di insincero, un’emozione che non ci appartiene. Questo “benessere in comodi flaconi” (ma il discorso vale anche per l’autostima, l’autocontrollo e tutti gli altri tratti caratteriali) non ha niente a che vedere, per il PCB, con la “vera felicità”. Se il nostro stato emotivo non si accorda con la verità dei fatti, ma la trascende, possiamo sì ottenere una condizione di “beatitudine perpetua”, ma ci precludiamo la strada verso la felicità: questa infatti dipende dalle nostre azioni, dalle esperienze, dall’impegno profuso nella realizzazione dei nostri sogni. Il benessere psicofisico, l’allegria, il sentirsi a proprio agio nel mondo, sono tutte caratteristiche dell’esistenza che devono contribuire al, ma non determinare il, significato della nostra condotta.

Questo non vuol dire, secondo la critica, che bisogna cercare attivamente la sofferenza: le emozioni e i sentimenti, siano essi piacevoli o spiacevoli, servono per indicarci una strada da percorrere, sono gli strumenti naturali che dobbiamo usare per indirizzare le nostre azioni verso un fine ultimo più grande. Pertanto, il potenziamento delle risposte emozionali agli eventi e alle condizioni dolorose può incastrarci in un dilemma. Da una parte, il desiderio di un sollievo farmacologico è comprensibile da almeno due punti di vista: sul piano oggettivo, alcune situazioni sono così traumatiche e oppressive da risultare croniche e ingestibili per chiunque; sul piano soggettivo, esistono persone con un corredo neurobiologico “difettoso”, nel senso che rende le loro risposte emotive del tutto esagerate rispetto a certe situazioni. D’altro canto, però, il dolore emotivo può avere un significato morale, perché spesso è causato dalla perdita di qualcosa a cui conferiamo valore; anzi, a volte accade che la sofferenza ci riveli un bene del quale prima non eravamo coscienti. “Niente fa male se niente ha importanza”, afferma il PCB: il rischio è quello di perdere gli affetti umani e con essi parte del valore della nostra vita. La felicità intesa come mero “sentirsi bene” non può essere considerata un bene assoluto, perché anche certe afflizioni hanno una funzione positiva e, per certi versi, educativa. Affrontare il dolore ci rende più forti, più saggi e più compassionevoli. Inoltre, se è vero che certe virtù possono essere apprese solo vivendo appieno le situazioni difficili, allora, aggirando queste situazioni con la biotecnologia, potremmo precluderci la possibilità di ampliare il nostro spettro di esperienze, e convertire il superamento della condizione umana in una menomazione. Dopotutto, se fossimo sempre contenti di noi stessi non saremmo mai spinti a migliorarci: quindi, se l’uso degli psicofarmaci trascende la terapia per diventare compiacenza verso se stessi, si rischia di compromettere la propria capacità di crescere e imparare.

È per questo che, sempre secondo questa critica, le biotecnologie del buon umore devono essere usate

“con discrezione e in ambito terapeutico, per aiutare chi non può raggiungere altrimenti la capacità di conferire relazioni adeguate tra le cause e gli effetti della propria vita emotiva. Si tratta di aiutarli a raggiungere una relazione appropriata tra le circostanze in cui si trovano, la loro vita interiore e le varie possibilità di agire, così che possano provare gioia negli eventi gioiosi e tristezza in quelli tristi, meravigliarsi davanti alle meraviglie del mondo, opporsi alle crudeltà, e al contempo impegnarsi a sviluppare i propri talenti, onorare gli impegni e aver cura delle loro amicizie e dei loro amori.”131

Il problema di questo argomento è che si basa su una prospettiva totalizzante che azzera le istanze dell’etica liberale. Chi può dichiararsi certo di conoscere quale sia la “relazione appropriata” tra le circostanze e la vita interiore di un’altra persona? Quale autorità può rivendicare la critica bioconservatrice per dichiarare di sapere che cosa sia la vera felicità? Ovviamente, se non vogliamo mettere seriamente in discussione il valore dell’autonomia individuale, dobbiamo respingere questo argomento. Tuttavia possiamo reindirizzare la sua forza positiva nell’ambito dell’etica privata contro due interpretazioni della MCT, una superficiale l’altra contraddittoria.

Futilità della MCT: il transumanismo può funzionare da giustificazione etica per degenerare in un’esistenza dominata da un ebete gozzovigliare autoriferito, in cui tutta l’azione è volta all’immediato benessere sensoriale, scevro da ogni altra aspirazione.

Contraddittorietà interna alla MCT: il mero appagamento emotivo e sensoriale ottenuto tramite sostanze psicotrope contrasta col desiderio di superare la condizione umana. Il transumanismo si fonda sulla percezione dei limiti concreti al pieno sviluppo della persona, ma la condizione di benessere indotta artificialmente può offuscare il desiderio di migliorarsi.

Chiaramente queste degenerazioni costituiscono due evenienze da respingere, e sollevano la necessità di alzare ulteriori limiti alla MCT, oltre a quelli indirizzati contro il perfettismo e l’immortalismo. L’etica transumanista deve quindi essere precisata, perché, se si basa solo sul superamento delle condizioni umane, presta il fianco ad almeno tre derive moralmente deprecabili: la possibilità di usi distorti delle nuove tecnologie per il potenziamento e il controllo dell’organismo umano esige di predisporre contromisure atte a scoraggiare i singoli agenti dal far leva su interpretazioni aberranti della MCT. Tuttavia, la mera eventualità che qualche agente morale giochi “al ribasso” tentando di trasformare l’etica del miglioramento umano in uno mero tecnonarcisismo autoreferenziale non costituisce un’obiezione di principio. Usando le parole di Bostrom:

“Ci saranno anche coloro che si trasformeranno in esseri postumani degradati, ma d’altra parte anche oggi esistono esseri umani che non conducono vite moralmente accettabili. Per quanto spiacevole, il fatto che qualcuno possa fare delle scelte sbagliate non è motivo sufficiente per sopprimere il diritto di scegliere del resto della popolazione.”132

9.4 La memoria collettiva e il dovere di ricordare le ingiustizie.

Il PCB fa notare come non sempre la memoria abbia un valore esclusivamente privato. Spesso i ricordi delle persone si integrano in una memoria collettiva, la quale ha un’importanza pubblica perché fa parte del tessuto sociale in cui viviamo e della nostra storia. Da questo punto di vista la manipolazione della memoria, soprattutto su grande scala, può avere gravi ripercussioni sulla nostra identità sociale: abbiamo il dovere di ricordare certi eventi, per quanto siano dolorosi, e può farsi carico di questo dovere solo chi, nel bene e nel male, ha vissuto quegli episodi. Ciò non significa che il bene del singolo debba essere sacrificato in nome della collettività. L’avvertenza morale del PCB è quella di non lasciare sole quelle persone che portano la testimonianza di eventi storici terribili: la solidarietà in questi casi diventa dovere di compatire (letteralmente, di soffrire insieme). Dimenticando si eviterebbe semplicemente il problema e si comprometterebbe per sempre non solo la verità della storia, ma anche quella della giustizia.

Questo argomento ha una certa forza persuasiva. Se tutte le persone coinvolte nei drammi di una guerra decidessero di cancellarne il ricordo, farebbero la scelta giusta? Non abbiamo forse il dovere di ricordare anche gli avvenimenti terribili, se fanno parte della storia? In realtà le stesse domande potrebbero essere sollevate in ambito privato: chi ha vissuto esperienze traumatiche potrebbe sentire il dovere di ricordare ciò che è accaduto per il valore storico o giuridico della propria testimonianza. Contro una scelta del genere non credo si possa obiettare. Anzi, purché sia un atto volontario, credo che dovremmo lodare chi scelga di non dimenticare per amore della verità e della giustizia. Potrebbe darsi il caso in cui sia moralmente doveroso ricordare gli eventi tragici della vita? Bisogna rispondere affermativamente anche a questa domanda. Alcuni reati hanno bisogno di testimoni per poter essere giudicati in modo appropriato, e spesso i colpevoli di azioni efferate possono essere consegnati alla giustizia solo in base alle deposizioni delle loro vittime. In questi casi, quando in ballo c’è l’impunità di un criminale, la memoria di una persona ha un valore collettivo, e questa persona commetterebbe un atto indegno nel dimenticare. Ma tale conclusione ci autorizza a usare misure coercitive nei confronti dei testimoni?

Secondo il PCB, il dovere di ricordare resta una questione soggettiva: “Di certo non possiamo e non dobbiamo obbligare chi ha subito un forte trauma a sopportarne il ricordo per il beneficio degli altri.”133 Qui si presenta un contrasto tra le sofferenze di una persona e il dovere di fare giustizia. Se fosse possibile sviluppare una tecnica per dissociare il dolore dal ricordo senza comprometterne il contenuto questi dubbi potrebbero trovare una soluzione: il problema è che, per quanto ne sappiamo, noi tendiamo a ricordare meglio gli eventi associati ad emozioni forti.

9.5 Il ruolo della memoria nella responsabilità morale.

È evidente che, senza il ricordo, sia esso personale o collettivo, delle nostre azioni, non potrebbe darsi alcun senso di responsabilità. Manipolare la memoria quindi è sbagliato perché compromette la consapevolezza di essere causa delle proprie azioni e quindi un agente morale. Dissociando le emozioni dal ricordo, potremmo scindere l’atto dalla sua responsabilità: fino a che punto è imputabile una persona che non conserva alcun ricordo delle proprie azioni?

“In particolare, il potere di desensibilizzare o eliminare il rimorso psicologico di certi ricordi rischia di erodere la responsabilità delle nostre azioni, perché non saremo più obbligati ad affrontare il severo giudizio della nostra stessa coscienza o quello della memoria altrui.”134

Questa obiezione è plausibile, ma d’altra parte non ha una grande forza. Chi usa compiere azioni indegne non ha bisogno degli psicofarmaci per evitare la sgradevole sensazione di rimorso. Comunque, se è vero che la memoria è fondamentale per assumersi le proprie responsabilità, allora alterare i propri ricordi con la speranza di sfuggire al senso di colpa o anche alla giustizia è un uso perverso dei mezzi a disposizione. Supponiamo di essere dei soldati che stiano per entrare in zona di guerra, e di avere a nostra disposizione una pillola studiata per dimenticare tutto quello che faremo nelle prossime sei ore di veglia. In caserma ci hanno detto di prenderla perché in genere molti soldati, dopo la fine delle ostilità, sviluppano un disturbo da stress post-traumatico, una forma di malattia mentale che tormenta la vita di chi ha sperimentato gli orrori della guerra. Razionalmente, ci conviene ingoiare la pillola, anche se poi non ricorderemo niente di quelle sei ore d’inferno. Ora, supponiamo di essere sul campo di battaglia e di trovarci in una situazione in cui possiamo compiere un’azione che noi stessi reputiamo immorale per ottenere un qualche immediato vantaggio. Il fatto che abbiamo preso la pillola ci esime dal comportarsi in modo degno? Quello che io faccio nelle sei ore successive all’assunzione del farmaco non lo ricorderò, e non farà più parte di me: razionalmente mi conviene fare qualsiasi azione scellerata se può fornirmi un vantaggio, tanto dopo non ne proverò il rimorso e, con un po’ di fortuna, non potrò essere incolpato di qualcosa che nessuno ricorda (possiamo tranquillamente assumere che anche gli altri commilitoni siano tutti sotto l’effetto della sostanza).

Consideriamo ora un esempio isomorfo a quello del soldato immemore: quello di una persona consapevole della propria morte imminente. Chi sa di avere una grave malattia e decide di spendere gli ultimi giorni della sua vita nel vizio più turpe, è legittimato, legalmente o moralmente, a compiere azioni efferate? Certamente no. La critica del PCB relativa alla responsabilità allora non è un’obiezione di principio, ma solo un’avvertenza morale atta a prevenire gli usi distorti del mezzo tecnico in questione. Ovviamente, non è razionale rinunciare alle prospettive positive di una determinata tecnica solo perché qualche malintenzionato potrebbe usarla per compiere i suoi crimini. Quello che invece possiamo e dobbiamo fare, è prevenire e denunciare gli usi distorti delle nuove tecnologie.

9.6 Come districarsi?

Il problema fondamentale, quando ci troviamo di fronte alla possibilità di alterare direttamente il nostro stato d’animo per mezzo della tecnologia, sta, come ho già accennato, nel dover soppesare quanto valore conferire alla veracità delle proprie esperienze rispetto al desiderio di raggiungere uno stato emotivo di completo benessere. Per valutare al meglio le conseguenze di tale scelta dobbiamo rispondere a una serie di domande alquanto difficili circa le cose che hanno davvero importanza per noi. Dobbiamo cioè motivare la nostra scelta comprendendola all’interno di una cornice di senso, una serie di convinzioni che possano fungere da punti d’appoggio per conferire significato alla nostra esistenza. Questa necessità non è da poco, e costituisce un ottima occasione per porci domande molto profonde su che tipo di persona vogliamo essere e come abbiamo intenzione di spendere la nostra esistenza. Molte persone si lasciano vivere oppure si limitano ad adottare la cornice di senso più a buon mercato, senza credere in ciò che fanno. Io penso che la concreta possibilità di alterare il proprio stato d’animo, l’opportunità di soffiar via la nebbia del malessere con una piccola pasticca colorata, ci ponga di fronte a una serie di domande cruciali, dalla quale non possiamo distogliere lo sguardo: utilizzare mezzi tecnici per modificare il proprio stato d’animo equivale a far finta di non vedere le cause del nostro disagio? Quanto è giusto agire su se stessi per adattarsi all’ambiente in cui si vive, e quanto invece dovremmo cercare di cambiare il mondo per renderlo un posto migliore? Forse a volte è meglio sentirsi male, se ciò può fare scattare in noi un campanello d’allarme contro le ingiustizie e gli altri mali del contesto in cui viviamo?

Secondo alcuni tecnoedonisti come David Pearce135 noi tutti abbiamo il dovere morale di migliorare il nostro umore, anche con l’uso di sostanze chimiche, perché delle persone felici sanno coltivare meglio le proprie motivazioni, sono piene di energie e affrontano i problemi della vita con più ottimismo. Anche secondo James Hughes la prospettiva di una società infusa di benessere artificiale non è da respingere:

“… una droga che rendesse più allegri e ottimisti avrebbe le stesse probabilità di dare alla gente la speranza e l’energia necessarie per migliorare le proprie vite, per lavorare a grandi progetti e per cambiare il mondo in cui viviamo. Non sembra esserci alcuna contraddizione tra l’avere una prospettiva ottimistica e una positiva opinione di se stessi da una parte, e il coltivare un appassionato impegno nelle faccende civili e nella giustizia sociale dall’altra.”136

Tuttavia, l’importanza che conferiamo al nostro benessere non può prescindere dal sistema di valori che ognuno di noi conferisce alla propria vita. Se viviamo senza una “cornice di senso”, se ancora non abbiamo trovato quei valori che stabiliscono l’autenticità della nostra vita, corriamo il rischio di agire con superficialità, senza conoscere le cause del nostro malessere, e di lasciarci condizionare da chi ha tutto l’interesse per farlo. Ecco come Francis Fukuyama, membro del PCB, descrive il dilagante consumo di psicofarmaci negli USA:

“Esiste una simmetria sconcertante tra Prozac e Ritalin: il primo viene spesso prescritto a donne depresse con un deficit di autostima, e dà loro le sensazioni provate dai maschi dominanti dovute a un alto livello di serotonina; il Ritalin invece viene somministrato ai giovanissimi che non sono in grado di stare fermi e seduti in classe, in quanto la natura non li ha progettati per comportarsi così. Entrambi i sessi, allo stesso tempo, vengono sospinti con gentilezza verso quella personalità mediana androgina, soddisfatta di sé e ligia alle regole sociali, che oggi costituisce il modello politicamente corretto per la società americana.”137

Il pericolo di perdere l’unicità della propria esistenza e appiattirsi ai “canoni sociali” è sempre dietro l’angolo, a prescindere dal livello tecnologico disponibile. Pertanto, se vogliamo districarci dal dedalo della psicofarmacologia cosmetica, dobbiamo acquisire informazioni, raccogliere testimonianze, ponderare i pro e i contro, e magari sperimentare anche in prima persona gli effetti di queste sostanze; ma per raggiungere una risposta possiamo interrogare solo noi stessi e le nostre convinzioni. Il diritto di controllare la propria vita (mente e corpo compresi) è un fondamento irrinunciabile per una società democratica, quindi la decisione di usare o meno le tecnologie NBIC per il miglioramento della propria condizione emotiva dovrebbe spettare alle singole persone.

Capitolo 10. Hybris: dal rispetto per “ciò che ci è stato dato” alla dignità postumana

10.1 La teoria dell’inviolabilità della natura

L’argomento che fa capo alla teoria dell’inviolabilità della natura, già proposto e riproposto contro altri usi non tradizionali della tecnologia, è uno dei punti d’appoggio principali per la critica bioconservatrice. Nel corso dei precedenti capitoli l’abbiamo intravisto più volte sullo sfondo delle varie obiezioni di principio mosse contro i desideri di vivere più a lungo, ottenere prestazioni superiori e migliorare il proprio umore: quando il PCB fa appello alla necessità di limitarsi a cercare l’umana eccellenza, quando sostiene che la forma biologica del ciclo vitale umano è sacrosanta e che il dolore fisico e la sofferenza emotiva sono sensazioni necessarie per “vivere in modo veramente umano”, non fa altro che sostenere contro i bioprogressisti il dovere morale di rispettare una presunta essenza umana.

“Dobbiamo vivere, o cercare di vivere, come veri uomini e donne, accettando i nostri limiti, coltivando le nostre doti e agendo (performing) in quei modi che sono umanamente eccellenti. Fare altrimenti, significherebbe raggiungere i nostri risultati più desiderati ad un costo definitivo... non essere più noi stessi.”138

L’enorme potenziale di controllo in ambiti che fino ad oggi erano di fatto intoccabili per l’uomo, suscita da più parti una forte reazione di sdegno, reazione mossa sostanzialmente da due sentimenti: il timore reverenziale per ciò che è sempre stato al di là del potere umano da una parte, e la paura dettata da una radicale sfiducia nell’umanità dall’altra. È difficile dire fino a che punto questi due sentimenti si sostengano a vicenda, però forse è possibile azzardare un’ipotesi e identificare come punto d’origine di entrambi l’esigenza di rimettere all’ambito del sacro parte delle responsabilità umane, in modo tale da conservare un guscio di senso protettivo contro le zone oscure del mondo e di se stessi. Come prova a sostegno di questa mia congettura mi limito a citare le parole di M.J. Sandel, docente di filosofia politica all’Università di Harvard nonché membro del PCB:

“Una delle benedizioni insite nel considerare noi stessi creature della natura, di Dio o del caso, è che ciò non ci rende pienamente responsabili di come siamo.”139

Il problema per chi la pensa così si presenta quindi nel momento in cui la tecnologia consente di comprendere e manipolare ciò che prima era solo un mistero, caricando l’uomo di una grave responsabilità in più, magari del tutto inattesa e indesiderata. Ironicamente, quasi tutta la gravità della questione sta nella sua stessa inderogabilità perché, con l’incalzante sviluppo scientifico e le tecnologie NBIC alle porte, siamo obbligati a prendere posizione e assumerci la responsabilità di alcune scelte epocali. Voltare la testa e dare poca importanza alla cosa sarebbe un atto gravissimo, non solo perché darebbe prova di pusillanimità, ma anche perché la posta in gioco appartiene a tutti noi. È per questo che il dibattito sulla natura umana dovrebbe uscire dall’ambito accademico ed estendersi al maggior numero di persone, anche se attualmente l’opinione pubblica sembra nutrire scarso interesse per le problematiche del biopotenziamento.

Ma passiamo senz’altro al bandolo della matassa, con la speranza di rendere merito all’importanza della questione. Per teoria dell’inviolabilità della natura dobbiamo intendere quella concezione morale che assegna un valore tanto grande all’ordine naturale da impedirne qualsiasi manipolazione. Questa teoria può essere sostenuta fondamentalmente da due tesi: una è di carattere prettamente religioso, mentre l’altra avanza qualche pretesa di laicità.

Tesi dell’opera di Dio: La natura rispecchia un ordine voluto da Dio. Alterare quest’ordine è un atto di presunzione nei confronti di Dio. Agire contro la volontà di Dio è sbagliato. Superare la condizione umana è un’alterazione dell’ordine voluto da Dio, quindi è sbagliato.
Tesi dell’opera di “Madre Natura”: La Natura ha un suo Ordine che noi umani non possiamo nemmeno arrivare a comprendere. L’Ordine Naturale ha un valore perché è la condizione di possibilità della vita. Modificare l’Ordine Naturale è un atto di folle presunzione. Superare la condizione umana significa modificare l’Ordine Naturale, quindi è sbagliato.

Come si può facilmente intuire, la versione più laica della tesi non fa altro che sottrarre il carattere di sacralità all’intervento divino per consegnarlo all’opera di Madre Natura. C’è anche una versione più debole, ma alquanto più ragionevole della stessa tesi:

Principio di Precauzione Naturale: La natura ha un ordine, segue certe leggi. Il mondo della vita fa parte della natura, e anch’esso segue certe leggi. I regni animale e vegetale che oggi troviamo nel mondo sono il frutto di milioni di anni di evoluzione e costituiscono insieme un ecosistema organicamente integrato, il cui equilibrio è molto delicato. Questo ecosistema ha un valore. L’uomo non conosce e non può prevedere tutte le conseguenze dei propri interventi tecnici atti a modificare quest’ordine. Quindi dovrebbe astenersi dal manipolare la natura perché, altrimenti, rischia non solo di comprometterne il valore, ma anche di provocare disastri.

Questa classe di argomenti è volta a reprimere quella che il PCB denomina “tentazione all’iperintervento (hyper-agency)”140, la quale si configura come una

“prometeica aspirazione nel riprogettare la natura, inclusa la natura umana, in base ai nostri scopi e per soddisfare i nostri desideri.”141

È per questo che è possibile indicarli come “argomenti dell’hybris”, termine del greco classico (?ß??s) pressoché intraducibile nelle lingue moderne, e con il quale s’intendeva “una qualsiasi violazione della norma della misura, cioè dei limiti che l’uomo deve incontrare nei suoi rapporti con gli altri uomini, con la divinità o con l’ordine delle cose”142. Qui per “misura” non bisogna intendere ovviamente il rapporto tra una grandezza e l’unità, bensì “il criterio o canone di ciò che è vero o bene”143, quel giusto mezzo che dobbiamo cercare di seguire per rapportarci col mondo (comprese le altre persone) in modo ordinato e armonico.

10.2 Il rispetto assoluto

Il punto comune su cui fanno leva gli argomenti dell’hybris è che questa tentazione ad agire senza limite sottenderebbe una “falsa concezione” di ciò che ci è stato dato, nonché un’impropria disposizione nei suoi confronti. Il biopotenziamento, come molti altri interventi tecnici sulla natura, dimostrerebbe l’incapacità di apprezzare e rispettare il nostro corpo come qualcosa che ci è stato donato. Questo del dono è forse il fulcro morale degli argomenti dell’hybris:

Principio morale 1: Ogni dono in quanto tale merita rispetto.

Chiaramente questo principio dev’essere corredato dalla

Tesi 1: L’uomo è un donatario; noi non siamo completamente frutto di noi stessi.

Dunque, secondo l’argomento dell’hybris, l’uomo è già da sempre in debito, o con Madre Natura o con Dio, perché non è di fatto completamente artefice di se stesso.

massima morale del rispetto assoluto: Dovremmo agire con rispetto e umiltà nei confronti di ciò che ci è stato dato.

Qui “dono” va inteso in senso lato: da una parte può veramente essere ciò che Dio stesso ci ha dato, dall’altra può anche essere inteso come “tutto ciò che abbiamo trovato in natura”. In entrambi i casi, si assume che il dono non debba essere soggetto completamente all’arbitrio del donatario. Perché?

Forse bisogna fare una distinzione. Da una parte c’è il valore morale del dono come riflesso del rispetto che il donatario ha nei confronti del donatore; questo valore non dipende dalla sostanza del dono, bensì dalla persona donatrice. Dall’altra abbiamo il valore che il dono può avere in relazione alla (qualità della) vita del donatario e questo sì deriva dalle qualità di ciò che si riceve.

Secondo l’argomento dell’hybris noi siamo chiamati al rispetto della natura umana in quanto opera di Dio o di Madre Natura. Ma qui spunta un dubbio. Poniamo che il valore relativo del dono sia nullo o addirittura negativo (cioè che si riveli un danno per la vita del donatario): se il donatario volesse comunque agire nel rispetto del donatore, sarebbe moralmente costretto a non manipolare ciò che ha ricevuto? Questa conclusione sembra poco plausibile.

Obiezione alla massima del rispetto assoluto: Chi riceve un dono è ragionevolmente legittimato a intervenire sullo stesso con lo scopo di trarne qualcosa di buono per la sua vita, pur tenendo alto il rispetto nei confronti del donatore.

Il bioconservatore qui può sollevare due serie di risposte così riassumibili: (1) ciò che è bene per l’uomo, lo sa meglio il donatario (Dio o Madre Natura) dell’uomo stesso; (2) se siamo fatti in questo modo un motivo c’è e noi non lo conosciamo, quindi è meglio astenersi. Entrambe queste classi di affermazioni sono però pericolose perché, sebbene non siano necessariamente false, se usate per ribattere all’obiezione contro il rispetto assoluto sottendono un atteggiamento mentale pericolosamente oscurantista e del tutto inaccettabile, anche per il più intransigente dei bioconservatori. La proposizione (1) non solo accoglie in senso fatalista la presunta minorità dell’essere umano, ma contraddice la positività dell’intero sviluppo tecnoscientifico. La (2) invece nasconde un’implicazione inaccettabile perché, portata alle sue coerenti conseguenze, conduce alla mera giustificazione di ogni evento.

Comunque, non c’è bisogno di prendere in esame la storia della tecnologia per capire che la massima morale del rispetto assoluto è stata sempre e sistematicamente disattesa da Homo sapiens. La nostra specie di fatto si è co-evoluta con la tecnologia, cioè ha già da sempre manipolato l’ambiente e il proprio corpo onde trarne vantaggio sia nella lotta per la sopravvivenza, sia nella competizione sociale. Con questo non voglio sostenere che siccome l’uomo ha sempre agito in un certo modo, allora questo modo di agire sia giusto, ma voglio solo mettere in evidenza la problematicità conseguente l’ostinata assunzione di un atteggiamento di minorità mentale.

Tesi della necessità dell’intervento: la tecnologia, intesa in senso lato come manipolazione intenzionale e finalizzata dell’ambiente (natura compresa), è necessaria alla sopravvivenza della nostra specie.

Non credo che sia possibile negare questa tesi. Supponiamo tuttavia di voler ancora interpretare e applicare in modo rigoroso la massima del rispetto. Ciò è possibile? Bisogna chiarire che cosa significa agire con umiltà e rispetto. Per quanto riguarda l’umiltà, a patto che non si riveli una pusillanimità mascherata, possiamo sempre farne una virtù di prudenza e, se è vero che la saggezza conviene, è sempre razionale adottare un atteggiamento umile, non tanto rispetto al mondo quanto nei confronti della scarsità e della fallibilità delle nostre conoscenze. Passando invece al rispetto, un’interpretazione rigorosa della prima massima sostenuta dal PCB ci metterebbe in una situazione di stallo: essa è infatti in antitesi col libero arbitrio (che è fondamento della possibilità di ogni morale), a tal punto da annichilire la possibilità stessa di un’azione qualsiasi, figuriamoci poi quella di un’azione morale. Se infatti l’uomo dovesse rispettare in modo assoluto tutto ciò che gli è stato dato, si troverebbe costretto o a non intervenire mai, né sul mondo né su se stesso, oppure a concludere che, facendo parte egli stesso dell’ordine naturale delle cose, tutte le sue azioni rientrerebbero in tale ordine e quindi l’una varrebbe l’altra. Entrambe le conclusioni sono tanto nichiliste quanto paradossali.

10.3 Dal rispetto per la natura alla dignità umana

La massima del rispetto si rivela inapplicabile non solo sul piano teorico, ma anche dal punto di vista pratico: molto semplicemente, non tutto ciò che ci è stato dato ha lo stesso valore e va rispettato allo stesso modo, perché ci sono tanti aspetti di questo bel mondo e di noi stessi che nessuno riesce ad amare senza cadere in un fatalismo ipocrita o in un giustificazionismo da quattro soldi144. La strada del rispetto incondizionato del dono non sembra molto vantaggiosa per il critico del biopotenziamento e infatti il PCB è costretto a fare marcia indietro. Quindi, chi solleva l’argomento dell’hybris vuole solo porre e salvaguardare un limite alla manipolazione: non critica infatti l’intervento bensì l’iperintervento.

Fatto 3: Alcuni doni creano problemi.

Constatazione: La massima morale del rispetto assoluto si scontra con la dura realtà della natura, la quale spesso gioca a nostro svantaggio. Pertanto non è sufficiente come guida per illuminare le nostre scelte e il bioconservatore deve ripiegare su una massima più ristretta.
Massima morale del rispetto relativo: Alcuni doni sono speciali e hanno un valore morale superiore. Solo quelli vanno rispettati con umiltà.
Come si può facilmente intuire, a questo punto il dubbio morale si trasforma in un problema epistemologico: quali sono questi doni speciali e perché sono proprio questi e non altri? Quali sono le caratteristiche salienti di questi doni e perché li rendono moralmente speciali? Per questa via, ci rendiamo conto di come l’argomento dell’hybris nasconda al suo interno qualche presupposto importante. Chi condanna l’MCT e abbraccia la massima del rispetto relativo deve infatti assumere, nel momento in cui trattiamo ciò che rende l’uomo come è, l’esistenza di una norma della misura: ovvero, non solo s’inerpica sull’aspro pendio che circonda il concetto di natura umana, ma deve anche dar conto del modo in cui noi dovremmo comportarci nei suoi confronti.

Il nostro tema continua a mostrarsi gravido di rimandi concettuali di grandissima importanza, ma ora non è necessario inoltrarsi nel dibattito ontologico sull’essenza dell’umanità. La questione che dobbiamo porci è infatti di carattere etico: posto che una natura umana esista, quale sarebbe la sua rilevanza morale? Secondo il PCB il rispetto per ciò che ci è stato donato, può servire da “guida positiva”, cioè guida epistemica nel selezionare quanto dobbiamo lasciare inalterato da quanto invece possiamo manipolare, solo se c’è una data umanità (“a human givenness or a given humanness”), provvista anch’essa di un valore, degna anch’essa di rispetto. Ma in che modo la nostra natura serve da nottolino morale?

Assunzione epistemologica145 del PCB sulla natura umana: l’essere umano non va descritto in termini corporei (material), meccanicisti o medici, bensì in termini psichici, morali e spirituali. Bisogna trascendere la visione medica della persona umana per interpretarla come una creatura “posta nel mezzo” (in-between), “né dio né bestia, né mero corpo né anima disincarnata, ma come una sbalorditiva unità di psiche e soma”146.

Questa concezione dell’uomo come creatura in bilico è importante perché permette di vedere in ciò che ci determina la condizione di possibilità dei nostri valori esistenziali: i limiti precisi del corpo e della psiche umani diventano fonte delle più alte aspirazioni; dalle debolezze nascono gli affetti profondi; e i nostri doni naturali, “sempre che non li sprechiamo o non li distruggiamo, sono esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per prosperare e perfezionarci in quanto esseri umani”147.

Conclusione del PCB: L’unico fattore che può servire al caso è la natura umana; solo conferendo un valore speciale alla natura umana possiamo dissolvere il dubbio epistemologico circa i doni da rispettare con umiltà.

Questa prospettiva però rischia di non cogliere l’obiettivo, per tre ordini di motivi:

    Anzitutto si basa su un’assunzione lasciata ingiustificata, e cioè che i nostri limiti siano precisi e assoluti; anche ammettendo che i nostri limiti siano precisi, risulta comunque difficile sostenere che siano assoluti. Ci rendiamo conto di avere dei limiti, immaginiamo di poterli superare e di fatto nel corso della storia siamo riusciti in parte a superarli: questo ci spinge a pensare che essi siano alquanto relativi allo stato attuale delle nostre conoscenze (in effetti, i nostri limiti veramente assoluti non li potremmo, a rigor di logica, neanche concepire).

    In secondo luogo lascia intendere che la ricerca del miglioramento sia moralmente lecita solo all’interno di una cornice di caratteristiche già data. Il PCB, ma in genere chiunque sostenga l’argomento dell’hybris, non nega legittimità morale al desiderio di migliorarsi. Ci dice solo che, siccome i nostri limiti naturali sono la condizione di possibilità di molti valori, allora superando i primi perderemmo i secondi. Questo può essere vero, se è vero che senza limiti non ci sono neanche possibilità, ma il problema è un altro: non c’è alcun motivo di supporre che, superati certi limiti, non se ne presentino degli altri. Estensione della vita non significa necessariamente desiderio di immortalità, aumento delle prestazioni non vuol dire onnipotenza e miglioramento della propria condizione emotiva non significa ebete trastullamento. Tale modo di ragionare è un “passaggio al limite” che rientra nello schema generale degli argomenti del “pendio scivoloso”, dei quali avremo modo di discutere più avanti.

    Inoltre ho il sospetto che l’argomento del PCB sia circolare. Si parte dalla constatazione del fatto che certi aspetti di “ciò che ci è stato dato” non vadano rispettati perché sono dannosi. Poi, si indica la natura umana come discriminante nella scelta di cosa cambiare e cosa lasciare inalterato. Ma qui sorge un dubbio: la percezione di qualcosa come limite dannoso, come problema da risolvere, non dipende proprio dal modo in cui siamo fatti? Al bioconservatore spetta l’onere della prova di mostrare che il desiderio di miglioramento sia innaturale, un compito che sembra insolvibile.

Chi si appoggia alla Tesi 1 per delegittimare l’intervento dell’uomo sulla propria natura, sta semplicemente sostenendo che, siccome noi di fatto non siamo completamente frutto della nostra volontà, allora non abbiamo il diritto morale di sottoporre completamente la nostra natura alla nostra volontà: è quasi come affermare “siccome di fatto e per cause naturali la nostra libertà di cambiare le cose è limitata, allora non abbiamo il diritto di emanciparci sviluppando mezzi che possano estendere la nostra libertà di cambiare le cose”.

L’alternativa radicale per uscire da questa impasse è sostenere fin da subito che la natura umana non vada toccata perché è la condizione di possibilità della morale stessa. In questo senso, manipolare quelle caratteristiche tipiche dell’umanità creerebbe un corto circuito etico, uno scenario di “nichilismo postumano” in cui l’uomo, agendo direttamente sulle proprie caratteristiche essenziali, andrebbe indirettamente a modificare non solo i suoi attuali valori, ma anche la facoltà stessa di agire in modo morale. Questa è la linea recentemente sostenuta da F. Fukuyama, che fa appello alla natura umana come baluardo contro l’iperintervento biotecnologico nel suo libro intitolato “L’uomo oltre l’uomo”148.

Per inciso, a questo punto risulta già evidente come l’appello alla natura umana sia una mossa poco franca. Anzitutto quello di “natura” non è un concetto ben definito, bensì un insieme di concetti “diversamente imparentati tra loro”149; e poi, nell’assunzione che il carattere fondamentale di una “natura umana” sia proprio la sua intrinseca necessità, ogni appello alla sostanza dell’essere umano deve fornirne fin da subito una determinazione assoluta e inequivocabile. Non si può affermare che abbiamo il diritto di migliorarci solo entro i limiti di ciò che è umano senza fornire una definizione univoca e chiara di “ciò che è umano”. Come cercherò di mostrare in seguito in questa stessa sezione, proprio facendo perno sull’ignoranza che circonda il concetto di natura umana si può rovesciare l’argomento dell’hybris e usarlo a difesa dei biopotenziamenti.

10.4 L’idea più pericolosa del mondo secondo F. Fukuyama

"Quale idea, se generalmente accettata, porrebbe la minaccia più grave al benessere dell'umanità?" Questa la domanda posta dai redattori di "Foreign Policy" nel numero di settembre/ottobre 2004150 a otto prominenti intellettuali, fra i quali Francis Fukuyama, professore di economia politica internazionale alla John Hopkins School of Advanced International Studies, nonché membro del PCB.

La risposta di Fukuyama? Il transumanismo, “uno strano movimento di liberazione” per cui “gli esseri umani devono sottrarre il proprio destino biologico dal processo cieco di variazione casuale e di adattamento dell'evoluzione e portare la specie a uno stadio successivo”151. Fukuyama ha preso tanto a cuore l’argomento da scriverci un libro, in cui lo scopo dichiarato è quello di argomentare a favore della paura di perdere la dignità umana, minacciata dall’uso indiscriminato e liberale della biotecnologia.

Nelle sue linee essenziali, il ragionamento svolto nelle pagine di “L’uomo oltre l’uomo” si articola in questo modo152:

L’esperimento mentale del Mondo Nuovo: Grazie a un esperimento mentale morale, immaginiamo una società futura pervasa dall’uso indiscriminato del biopotenziamento. Ci rendiamo conto di come in tale situazione immaginaria rimarrebbe ben poco dell’umanità: con il prolungamento della vita, il potenziamento delle prestazioni psicofisiche e il miglioramento dell’umore (nonché con l’ingegneria genetica) l’essere umano diventerà un altro tipo di creatura, un’entità essenzialmente diversa. Secondo Fukuyama a questo punto dovremmo percepire un misto di sdegno e paura. Questo sentimento negativo sgorgherebbe dal vuoto di valore provocato dalla perdita di umanità, cioè di quelle caratteristiche che, sinergicamente, vanno a costituire l’unicità umana, in buona sostanza la natura umana.

La natura come fondamento di dignità: Ora, la precedente affermazione può valere solo nel caso in cui la natura umana sia fondamento della dignità umana. Vale cioè se è possibile affermare che: il valore dell’uomo, in quanto specie, scaturisce dal modo in cui è fatto, cioè da alcune sue caratteristiche peculiari che egli trova già da sempre in sé; questa natura è interpretata da Fukuyama come “l’elemento che ci conferisce un senso morale”153, cioè la condizione di possibilità dello spazio morale stesso, in quanto spazio delle regole di condotta da mantenere all’interno di una comunità. Quindi la MCT, dichiarando di voler superare la condizione umana, andrebbe ad interferire con la “stessa base del senso morale umano”154.
Conseguenze disastrose: Dando libero accesso alle tecnologie del biopotenziamento, dobbiamo poi anche essere disposti ad “accettare senza ipocrisie le conseguenze dell’abbandono dei nostri concetti naturali di bene e male”155.

Questo modo di pensare presenta due punti strutturali intorno ai quali dibattere:

   In primo luogo, da un punto di vista pratico, nel compiere l’esperimento mentale della società futura Fukuyuama applica in modo acritico un’euristica della paura le cui implicazioni in ambito morale e politico sono alquanto discutibili.
   In secondo luogo, sul piano più teorico, pur ammettendo che sarebbe opportuno assecondare lo sdegno per la perversione della natura umana, resta il fatto che Fukuyama deve spiegarci (1) come sia possibile fondare la morale sulla natura, (2) cosa dovremmo intendere per natura umana e (3) perché il desiderio di migliorarsi è una perversione della stessa.

Nel corso del libro questi due argomenti restano intrecciati e creano una certa confusione alla lettura. Cercherò di approfondirli tenendoli separati.

10.5 Euristica della paura o pendio scivoloso?

L’euristica della paura è un metodo di scelta morale e politica esplicitato da H. Jonas nel suo trattato di etica per la civiltà tecnologica156. Secondo Jonas per poter valutare le implicazioni morali degli interventi tecnologici che hanno effetti a medio e lungo termine (e i biopotenziamenti rientrano in questa categoria), dobbiamo innanzitutto estendere il nostro sapere previsionale: solo con una conoscenza, per quanto probabilistica, delle condizioni future del mondo, ci mettiamo nella condizione di poter coniugare i nostri principi morali con delle scelte pratiche. Quindi, siccome nella valutazione morale conviene considerare anche le conseguenze, dovremmo già da subito elaborare una “scienza delle previsioni ipotetiche, una futurologia comparata”157.

Poi, una volta ipotizzati i molteplici scenari futuri, sono gli stessi principi della morale a indicarci il metodo con cui valutarli. Secondo Jonas infatti, solo la conoscenza del male può rivelarci il bene:

“come non conosceremmo la sacralità della vita se non esistesse l’omicidio [...], o non conosceremmo il valore della veridicità se non ci fosse la menzogna né la libertà se non ci fosse la schiavitù e così via, così anche nel nostro caso [...], soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare; abbiamo bisogno della minaccia dell’identità umana [...] per accertarci angosciati della reale identità dell’uomo.”158

È per questo che dovremmo applicare un’euristica della paura, perché è molto più facile percepire ciò che è male per noi, “mentre il bene può passare inosservato”159. Questo passaggio però non è ben chiaro e sembra che Jonas trascuri un intero aspetto della faccenda: quando si cerca di valutare un’azione, bisogna sì cercare di prevederne le conseguenze più negative, ma bisogna anche porsi qualche domanda circa le motivazioni. Se voglio agire in un certo modo, devo sicuramente cercare di prevedere gli effetti del mio intervento, ma non posso trascurare le mie ragioni: e se, dopo un’attenta riflessione, trovo delle ragioni moralmente buone per agire in quel modo, significa anche che mi aspetto di ottenere delle conseguenze positive. Questo implica che, se si adotta l’istanza conseguenzialista, bisogna prenderla in toto e includere nella previsione valutativa sia gli effetti negativi sia quelli positivi, sia i costi che i benefici. Eppure, secondo Jonas abbiamo tre buone ragioni per “prestare più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza”160. Esaminiamole:

La tecnica va avanti per grandi imprese azzardate: a differenza dell’evoluzione naturale, la tecnica moderna procede tramite “pochi e colossali interventi”161 mirati a ottenere degli effetti rapidi. Secondo Jonas c’è una sinergia tra le dimensioni e il ritmo dell’intervento tecnologico, il quale, configurandosi come una corsa verso l’utopia, non permette di correggere gli errori e ci mette in una condizione di pericolo costante (perché non è possibile prevedere tutti gli effetti).

Questa è senza dubbio un’ottima ragione per agire con prudenza, ma non mette in discussione l’intervento tecnologico in quanto tale. Per inciso, Jonas non chiarisce un particolare a mio parere sostanziale: la ricerca tecnica e scientifica procede grazie ad esperimenti, tramite prove ed errori e non si capisce quali siano queste grandi imprese azzardate. In realtà la forza che agisce nel modo paventato da Jonas, la realtà in cui quotidianamente si mettono grandi poste in gioco nella speranza di ottenere “realizzazioni escatologiche” non è la ricerca scientifica e tecnica, bensì il mercato. Che poi la prima sia ormai sottoposta alle leggi del secondo è una questione di ordine politico ed esula dall’ambito di questa tesi.
La tecnica procede come una reazione a catena: siccome gli sviluppi tecnici avanzano con una dinamica cumulativa che tende all’autonomia, secondo Jonas, il processo di ricerca e applicazione tecnica, oltre ad essere irreversibile, acquista “una funzione propulsiva al punto da trascendere la volontà e i piani degli attori”162. Quindi, se “prendiamo in mano la nostra evoluzione” cadiamo vittime di un’illusione perché, dopo il primo passo, “al secondo e ai successivi siamo già schiavi”163. Questo modo di vedere la dinamica della tecnica è, a mio parere, pericoloso. La questione dev’essere chiara: l’uomo può controllare la tecnologia oppure no? Se può controllarla, allora è possibile parlare di un’etica per la civiltà tecnologica, favorire o meno la ricerca in certi ambiti, e stabilire leggi atte a regolamentare l’applicazione di certe tecniche. Se invece la Tecnica (qui la T maiuscola è d’obbligo) procede in modo autonomo possiamo fare solo tre cose: studiarla con metafisico distacco per cercare di comprenderne il significato, rassegnarci perché le cose vanno per forza come devono andare, oppure cercare di porre questo fenomeno sotto il “nostro” controllo. In ogni caso, una delle condizioni di possibilità per una “tecnoetica” è che l’uomo possa influire sullo sviluppo tecnologico e possa scegliere se e come usare i mezzi tecnici, anche su se stesso.

La natura umana è sacrosanta: giungiamo al centro della questione, “su un piano meno pragmatico”164 scrive Jonas, ma forse sarebbe più opportuno dire “su un piano più metafisico”. La vera ragione per cui dobbiamo prestare più ascolto alla paura rispetto alla speranza è “che c’è da conservare l’eredità di un’evoluzione precedente”165, ovvero la natura umana. Siccome questa natura è intesa da Jonas come “sufficienza per verità, giudizio di valore e libertà”166, quindi come apertura originaria della morale stessa, ed è “qualcosa di unico e straordinario nel flusso del divenire dal quale ha avuto origine”167, allora ha un valore infinito. Di conseguenza non dev’essere né minacciata né manipolata, tantomeno per scopi di miglioramento. La paura di Jonas è quella di perdere una caratteristica insita nell’idea ontologica di uomo168, e cioè la possibilità stessa di agire in modo morale.
Conclusione: Prima di passare alla discussione sul valore dell’essere-così dell’uomo, voglio trarre alcune conclusioni sull’euristica della paura. Innanzitutto credo di poter affermare che si tratti di un modo di procedere parziale, e questo per la ragione già espressa: se bisogna considerare le conseguenze, allora la coerenza impone di valutare il rapporto tra costi e benefici. Quindi l’euristica della paura dovrebbe essere accompagnata da un’euristica della speranza. Poi, nella previsione di scenari futuri, sembra poco ragionevole dare troppo peso alle prospettive estreme, soprattutto nel caso del biopotenziamento. La libertà di potersi migliorare grazie alla nuova convergenza tecnologica non implica né scenari apocalittici (come vorrebbero Jonas e altri “bioluddisti”), né un’escatologia utopica (come vorrebbero alcuni transumanisti). Discuterò più avanti i problemi di ordine sociale derivati dall’uso distorto delle tecnologie per il biopotenziamento, in quanto non costituiscono un’obiezione di principio alla MCT.

10.6 I padri fondatori avevano ragione? Uguaglianza, dignità umana e liberaldemocrazia.

Fukuyama afferma che “nel mondo moderno il linguaggio dei diritti è diventato l’unico vocabolario comprensibile e condiviso utile alla discussione di ciò che è bene per l’uomo”169, e il motivo è che “i diritti sono alla base del nostro sistema politico liberaldemocratico”170. Questa di spostare la questione morale sui diritti è una mossa che spinge il discorso verso l’opzione politica; in effetti la tesi pratica del libro assegna agli organi istituzionali il dovere di controllare (cioè limitare) la ricerca e l’applicazione della biotecnologia. Comunque, siccome parlare di diritti significa parlare di giudizi morali, non esuliamo troppo dalla trattazione bioetica.

Secondo Fukuyama, la prima vittima della diffusione dei biopotenziamenti sarà il principio di uguaglianza, così come stabilito dalla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, secondo la quale “tutti gli uomini sono creati uguali”. Nelle sue stesse parole:

“alla base di questa idea dell'uguaglianza dei diritti c'è il credo secondo cui tutti possediamo un'essenza umana che oscura differenze manifeste quali il colore della pelle, la bellezza e persino l'intelligenza. Questa essenza, e l'idea che gli individui possiedano dunque un valore intrinseco, è al centro del liberalismo politico. Ma modificare questa essenza è il nucleo del progetto transumanista.”171

Basta analizzare queste poche frasi per arrivare a uno degli argomenti fondamentali di tutto il pensiero bioconservatore:

   La natura (o essenza) umana esiste, ma la sua esistenza è un atto di fede. La natura umana non ha niente a che vedere con molte differenze manifeste tra gli esseri umani, quali il sesso, l’età, l’etnia, il livello d’intelligenza ecc.
   La natura umana conferisce un valore intrinseco agli esseri umani; solo quegli individui provvisti di tale misteriosa essenza godono anche di un valore intrinseco particolare che li rende portatori di diritti civili; questo valore prende il nome di dignità umana, è inalienabile e obbliga gli altri agenti morali a conferire un livello minimo di rispetto.
   La dignità umana sta a fondamento di una concezione politica ben precisa: il liberalismo occidentale. Questa corrente di pensiero si esprime nella fondazione e nel sostegno dell’autonomia individuale e comprende i valori di libertà e uguaglianza.
   Il transumanismo vuole modificare la natura umana, quindi va a compromettere il liberalismo.
Qui è necessaria una breve precisazione sul concetto di dignità. Questo valore infatti può assumere almeno due accezioni alquanto diverse172:
   Dignità come Qualità: questo è il senso in cui, come abbiamo visto, il PCB interpreta la dignità dell’attività umana e quella di vivere in modo autentico la propria vita. Si tratta di un valore attribuibile sia alle persone che alle cose e indica un tipo di eccellenza: il dignitoso si distingue dal resto perché mostra di avere determinate caratteristiche, quali la nobiltà d’animo, la compostezza nei modi, il merito dovuto a un impeccabile comportamento. Questo tipo di dignità chiama, più che il rispetto, la riverenza dovuta alle cose belle e “elevate”, ed è quella che si perderebbe se si sfruttasse la MCT come scusa per la degenerazione morale, come abbiamo visto nel precedente capitolo.
   Dignità Umana: questo è invece il concetto di cui stiamo discutendo. Questo valore è molto più radicale e reclama il diritto inalienabile a essere trattati con un minimo di rispetto proprio in virtù di ciò che si è. La differenza tra Dignità come Qualità e Dignità Umana si fa lampante quando giudichiamo un efferato criminale: sarà anche una persona indegna e disprezzabile, ma è pur sempre un essere umano e non merita di essere degradato a bestia o a mero mezzo.

Ma perché dovremmo legare il concetto di Dignità Umana a quello di Natura Umana (data)? Che c’entrano i diritti inalienabili dell’individuo, concetti normativi che hanno tutta l’aria di essere il risultato storico di una contrattazione tra persone ispirate da certi ideali politici e filosofici, con la natura umana, un concetto descrittivo che dev’essere, in linea di principio, assolutamente determinato? La prima, radicale tesi sostenuta da Fukuyama nel suo libro può essere così enunciata

Tesi della “liberaldemocrazia naturale”: esiste una stretta relazione tra i diritti fondamentali del sistema liberaldemocratico e la natura umana; le istituzioni politiche occidentali del liberalismo democratico hanno avuto e stanno avendo sempre più successo perché “scaturiscono da una concezione della natura umana molto più vicina alla realtà di quanto lo siano le assunzioni alla base dei sistemi concorrenti”173.

Argomento a sostegno: Fukuyama identifica tre possibili fondamenti come origini dei diritti: quello divino, quello naturale e quello procedurale tipico dei diritti positivi contemporanei. La prima categoria è, non solo la più antica, ma anche quella meno sostenibile, per il semplice fatto che non è adeguata al dibattito politico tipico delle democrazie liberali. Anzi, “la vera essenza del liberalismo moderno consisteva nel rifiuto della religione come fonte dichiarata dell’ordine politico”174, e questo per un motivo molto pratico, e cioè che “il consenso politico è molto difficile da ottenere quando si affrontano questioni legate alla religione”175. La seconda categoria è quella che più ci interessa, perché Fukuyama sostiene che l’argomento noto come “fallacia naturalistica” (vedi dopo) viene usato in modo improprio. Ora, voler fondare i canoni della morale su dei fatti empirici non può rivelarsi un semplice ritorno al passato, quindi bisogna prima chiarire perché l’approccio procedurale contemporaneo sia da rigettare. Secondo questo terzo punto di vista, i diritti sono affermati e definiti dalle persone in base alle proprie esigenze ed è sempre possibile aggiungerli e modificarli all’interno di una comunità, purché ogni cambiamento sia il prodotto di una procedura equa e democratica. Questo è l’approccio usato normalmente in politica, ma secondo Fukuyama ha un grave punto debole: se i diritti sorgono da un dibattito politico, cioè da un compromesso per quanto equo, ciò significa che non possono esistere diritti universali finché nello stesso tempo esistono molteplici società sovrane. Se ogni popolo ha infatti il potere di stabilire i propri diritti, allora bisogna ammettere che “non esistono criteri trascendenti per la distinzione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato”176. Siccome questa conclusione ci condurrebbe ad adottare un relativismo dei valori, allora ci conviene cercare un fondamento per i diritti nella natura umana, l’unico elemento che, proprio perché universalmente determinato, può fornire valori stabili e universali.

Fermiamoci ad analizzare il pensiero fin qui esposto. Anzitutto, dobbiamo notare che Fukuyama non rende esplicito il motivo per cui l’approccio procedurale sarebbe da rigettare: cosa c’è di male nel fatto che ogni nazione scelga di seguire un proprio ordinamento morale? Perché il relativismo culturale è debole e va respinto? Il dibattito attinente a questa domanda, per quanto interessantissimo e cruciale nella filosofia politica contemporanea, ci porterebbe troppo lontano dal tema qui trattato, quindi dobbiamo accontentarci di sollevare se non altro il dubbio. In secondo luogo ci sono le difficoltà intrinseche all’adozione di un’etica dei diritti. Ponendo la salvaguardia della natura umana come condizione imprescindibile se si vogliono conservare certi diritti, Fukuyama deve dimostrarci perché i diritti liberali sono la ovvia espressione della nostra natura. Vediamo come procede il suo ragionamento.

10.7 Come aggirare la fallacia naturalistica

L’argomento della fallacia naturalistica (noto anche come “ghigliottina di Hume”) mostra come non sia “possibile inferire regole morali da fatti empirici utilizzando una regola a priori basata sulla logica”177. Questo significa che i nostri obblighi morali, e quindi anche i diritti, hanno un’origine trascendente rispetto al mondo naturale; in effetti, il fatto che le persone si comportano naturalmente in certi modi non dovrebbe implicare una giustificazione fatalista di tutte le azioni umane. Pertanto:

Argomento della fallacia naturalistica: Non si può escogitare alcuna deduzione che possa legittimamente implicare un enunciato caratterizzato dalla prescrizione “deve” o “non deve”, a partire da enunciati caratterizzati dalle copule “è” e “non è”.

Eppure “... in termini empirici, i valori umani sono di fatto strettamente correlati alle emozioni e ai sentimenti”178. Come fare a coniugare le due cose? Quello che qui bisogna capire è come poter fondare i valori su certe caratteristiche emotive della nostra specie. Il primo problema da risolvere è quindi trovare un modo per aggirare la fallacia naturalistica.

La ghigliottina di Hume non proibisce di usare i fatti empirici per discutere le regole morali. Essa implica che, per coerenza, non possiamo pretendere di fondare un sistema di valori su fatti, informazioni e previsioni. Questa operazione non è possibile perché tra i due ambiti semantici c’è un abisso epistemologico che impedisce una deduzione logica: da premesse di tipo descrittivo sui fatti del mondo non è possibile derivare conclusioni normative. Eppure, se limitiamo il discorso morale ad argomentazioni e a giustificazioni, è impossibile negare l’importanza della conoscenza (anche scientifica) dei fatti pertinenti e delle conseguenze empiriche di una certa azione. Dopotutto il giudizio morale è rilevante quando si esprime in un azione e ogni azione è un fatto; se accogliamo la ragione nel nostro giudizio morale, allora la conoscenza dei fatti è necessaria per agire in modo avveduto; se non accogliamo la ragione ci esponiamo al rischio di una deriva verso il cieco fanatismo da una parte o il cattivo relativismo dall’altra, azzerando in entrambi i casi lo spazio della filosofia morale. Come sostiene Rachels,

“nel fornire ragioni, non si è obbligati a sostenere che i fatti comportino logicamente il giudizio di valore; si deve solo sostenere che essi forniscono buone ragioni perché si accetti il giudizio.”179

Ora, se tutto ciò è plausibile,

“dovremo ammettere che in realtà è necessario nelle nostre argomentazioni morali introdurre prima o poi una preferenza per un qualche principio etico... una preferenza che sia radicata nelle nostre emozioni.”180

Questa sembra essere proprio l’opzione di Fukuyama. Ma qual è il principio etico che bisogna preferire?

10.8 Valori naturali e valori morali

Il passaggio dalla natura umana al sistema di diritti secondo Fukuyama è “mediato dalla discussione razionale a proposito delle finalità dell’uomo”181. La parola cercata è allora “finalità”; senza mezzi termini Fukuyama asserisce:

“la storia umana segue un’evoluzione logica, indirizzata dalla tendenza dell’uomo a perseguire le aspirazioni, le inclinazioni e i comportamenti propri della natura umana secondo un ordine razionale di priorità.”182

Questo punto dell’argomentazione conduce in un vicolo cieco. Riassumiamo il ragionamento di Fukuyama:

Premessa morale: il rispetto per le finalità umane.

Fatto 1: L’uomo ha una natura (è fatto in un certo modo e non in altro).

Fatto 2: Questa natura gli pone delle finalità, quindi degli scopi/valori individuali (es. l’istinto di sopravvivenza mi spinge a conferire valore alla mia vita).

Fatto 3: Le relazioni interpersonali fanno parte della natura umana (l’uomo è già da sempre un mammifero sociale).

Constatazione: Per “rendere possibili le iniziative collettive”183 è necessario rispettare certe regole di condotta comuni. Questo rispetto si è andato consolidando nel riconoscimento di alcuni diritti (la mia vita è un valore però anche la vita degli altri miei simili è un valore). Come si fa a scovare questi diritti?

Conclusione: Per trovare le regole morali basta analizzare razionalmente le finalità dell’uomo. In tal modo è possibile stabilire una lista di diritti fondamentali, sul rispetto dei quali fondare le nostre comunità politiche.

Ora, ammettiamo l’esistenza di finalità umane naturali. Ammettiamo anche di volerle rispettare. Ebbene con ciò non arriviamo ad alcuna conclusione e questo perché non si è detto niente circa l’istanza alla base di tutta l’etica, cioè il dubbio relativo al “presentarsi di qualche difficoltà nell’applicazione dei principi, regole, norme e valori tradizionali”184. Il dibattito etico (e quindi anche la necessità sentita da Fukuyama di intervenire contro certe pratiche scrivendo un libro) sorge proprio chiedendosi quali finalità umane debbano essere rispettate e in che modo! Quando Fukuyama afferma: “esistono nell’uomo reazioni emotive innate, che presiedono alla formazione di idee morali relativamente uniformi in tutta la specie”185, sta adottando una concezione giusnaturalista primitiva che identifica indebitamente i valori morali con i valori naturali, annullando ogni possibilità di rendersi utile nel dirimere il conflitto. Infatti, e qui la critica bioconservatrice mostra tutta la sua inefficacia, bisogna ancora dimostrare l’incompatibilità tra la volontà di miglioramento e le presunte finalità naturali dell’umanità. Anche affermando la necessità di trattare con rispetto e umiltà la nostra natura, non si capisce come venire a patti con i desideri di miglioramento senza tacciarli di non essere valori umani naturali; accusa che sembra alquanto infondata.

In secondo luogo, la tesi della “liberaldemocrazia naturale” non è suffragata da alcuna prova empirica. L’inferenza “siccome tutte le società stanno diventando democratiche, allora la morale liberale è più adatta alle finalità naturali dell’umanità” non ha alcun fondamento storico o scientifico. Anzi, l’affermazione di principi quali la libertà d’espressione e l’uguaglianza dei diritti è stata una delle più grandi conquiste dell’umanità, e ci sono voluti millenni perché qualcuno li ideasse e parecchio spargimento di sangue perché fossero trasformati in costituzioni. Se esiste una forma naturale di governo forse è la tendenza innata nell’uomo ad organizzarsi in tribù oligarchiche, nelle quali concetti come libertà di espressione ed equità lasciano il posto a quelli di repressione e prevaricazione del più forte: nelle società tradizionali non democratiche (verrebbe quasi da dire, “a cose normali”), le persone sono spinte, tramite varie forme di coercizione più o meno esplicite, a delegare parte della propria responsabilità (e quindi parte delle proprie decisioni) al gruppo dominante. Inoltre, come la comune esperienza di tutti può confermare, la piena applicazione del diritto all’uguaglianza, soprattutto nella sua forma più radicale di diritto alla diversità, richiede enormi sforzi orientati alla repressione di alcuni istinti “naturali” per favorire una maggiore apertura mentale.

L’ironia di fondo è che proprio le idee transumaniste di totale controllo sul proprio corpo e sulla propria psiche sembrano reclamare una più ampia diffusione di virtù sociali quali la tolleranza e il rispetto della pari dignità del prossimo anche se morfologicamente diverso. Chi difende la MCT di fatto non fa che ampliare i principi classici della liberaldemocrazia: l’autonomia individuale va a comprendere anche il proprio corpo e la propria vita emotiva, la libertà di espressione trascende le limitazioni negative che la natura ci impone, e l’uguaglianza deve estendersi al riconoscimento di diversità morfologiche ancora più radicali di quelle che hanno tristemente segnato la nostra storia, quali le distinzioni di sesso o etnia.

10.9 Il doppio gioco del Fattore X

A questo punto non si scappa: ci troviamo finalmente al nucleo degli argomenti dell’hybris, cioè la necessità di stabilire quali siano quelle caratteristiche che ci rendono unici e speciali, e che unite formano la nostra “essenza” inviolabile, la “dignitosa natura umana”. Fukuyama sostiene le seguenti definizioni:

Definizione 1: “la natura umana è la somma delle caratteristiche e dei comportamenti tipici della specie umana, originati da fattori genetici piuttosto che ambientali.”186

Definizione 2: “la tipicità è solo un risultato statistico; si tratta di un’approssimazione della mediana della distribuzione di un particolare comportamento o caratteristica”187, ma “il grado di varianza [della tipicità] non può superare certi limiti, definiti da fattori genetici”188.

Questa caratterizzazione della natura umana come un Fattore X incognito e scarsamente precisabile è la paradigmatica espressione del tranello intellettuale in cui il pensiero bioconservatore cade quando solleva l’argomento dell’hybris. Di seguito elenco una serie di ragioni per respingere definitivamente questo genere di obiezioni alla MCT:

   Anzitutto, se siamo disposti ad accettare l’evoluzionismo, allora la natura umana in quanto tipicità è contingente e mutevole, quindi i diritti naturali sono mutevoli e non universali come si voleva sostenere.
   Poi, sul piano epistemologico, lo stesso Fukuyama ammette che la conoscenza della natura umana sia un’opera in corso ancora non terminata; ma allora anche la nostra concezione di quali siano i presunti diritti naturali potrà cambiare col progredire delle ricerche scientifiche e antropologiche. Anzi, forse proprio grazie all’intervento tecnico sul nostro corpo potremo arrivare ad una più completa comprensione di ciò che siamo.
   In terzo luogo Fukuyama non è intellettualmente onesto perché, nel descrivere la nostra natura, fa trapelare caratteristiche e istanze della cultura liberaldemocratica occidentale, quali il principio di uguaglianza che, ben lungi dall’essere un fenomeno naturale, è stato il prodotto anche di sanguinosi conflitti storici.
   Comunque, anche accettando la concezione del “diritto naturale liberaldemocratico”, non si può coerentemente criticare l’uso dei biopotenziamenti quando è volto a soddisfare esigenze così ancestrali e così tipiche della nostra specie quali il prolungamento della vita, la felicità o le prestazioni superiori, perché avrebbero anch’esse tutte le carte in regole per rientrare nel sacro novero delle finalità umane naturali.
   È importante infine notare che Fukuyama argomenta in modo contraddittorio: parlando dei diritti, sostiene che bisogna fondarli sulla nostra natura perché altrimenti si cadrebbe in un cattivo relativismo; poi, siccome non vuole perdersi nella metafisica, ammette che la nostra natura è soggetta alle leggi dell’evoluzione e quindi è contingente.

Ora, aggiungo, non solo il nostro patrimonio genetico può cambiare, ma anche l’autocomprensione umana dipende di un paradigma epistemico tutt’altro che definitivo. Per questa via l’argomento dell’hybris può essere ritorto a sfavore del bioconservatore. Chi accusa l’intervento tecnologico sull’essere umano di immoralità perché crede che sia una mancanza di rispetto nei confronti di un ordine prestabilito, deve assumere non solo l’esistenza della natura umana, ma ha anche l’onere di spiegare in che cosa essa consista. L’accusa di tracotanza può a questo punto tornare al mittente: chi può ritenersi certo di conoscere che cosa sia davvero la natura umana? Messo di fronte alla necessità di fornire una determinazione del concetto, nessun bioconservatore (Fukuyama è solo l’esempio più lampante) sa rispondere in maniera chiara ed empiricamente convincente.

Ecco come Marchesini evidenzia il doppio gioco del Fattore X:

“Se difatti sembra peccare di hybris il biotecnologo che gioca con le carte di Dio, ancor più peccatore sembra essere il suo accusatore quando cerca di individuare un ordine stabile e antropomorfico nel mondo. Se la parola "hybris" si oppone all'ordine e all'armonia, questi ultimi concetti si oppongono alla complessità del mondo”189

Il problema non si limita al fatto che Fukuyama intraprenda una via empirica per porre la natura umana come fondamento dell’etica, senza dar conto di tutte le difficoltà che hanno investito i suoi predecessori190. L’aspetto più deludente del suo ragionamento è che tutto questo discorso sulla natura umana e sulla necessità di rispettare le finalità degli individui, risulta praticamente inutile ai fini della tesi principale del libro che, in buona sostanza, si riduce a uno scomposto attacco contro la prospettiva del postumano, visto come una minaccia alla dignità dell’uomo. Ma è veramente così assurdo sperare che seguendo la MCT potremo acquisire, e non perdere, dignità?

10.10 Dalla dignità umana alla dignità postumana

Per “dottrina della superiore dignità umana” dobbiamo intendere quella concezione morale che attribuisce un carattere di sacralità (quindi un valore assoluto) alla vita umana, relegando in secondo piano altre forme di esistenza. Chi adotta questa dottrina sostiene che l’essere umano goda di uno status morale speciale nei confronti dell’ambiente e degli altri esseri viventi. Come abbiamo visto, la critica bioconservatrice fa leva proprio sulla dignità umana per screditare le forme di esistenza postumane conseguenti all’accettazione diffusa della MCT. La distinzione terapia/miglioramento, il tentativo di demonizzare le tecnologie NBIC per il potenziamento e le obiezioni di principio mosse contro i desideri di lunga vita, prestazioni superiori e benessere psicofisico, alla fine sembrano convergere verso un solo punto: la condizione postumana è in sé degradante e va aborrita ad ogni costo, perché il superamento prospettato dal transumanismo è di fatto uno sprofondare nella disumanità. Emblematiche a proposito sono le parole di Leon Kass, direttore del PCB al tempo del Beyond Therapy:

“Omogeneizzazione, mediocrità, sottomissione, appagamento da droghe, degrado del senso estetico, anime senza amore e senza desideri: questi sono gli inevitabili risultati del rendere l’essenza della natura umana l’ultimo progetto della padronanza tecnica. Nel suo momento di trionfo, l’uomo prometeico si trasformerà in un bovino compiacente.”191

Il problema è che la dottrina della superiore dignità umana è assolutamente inaccettabile. Come ho cercato di mostrare, non c’è alcun motivo per supporre che esista un’essenza tipicamente umana sulla quale appoggiarci per considerare i membri della nostra specie moralmente più degni di tutto il resto. Ovviamente darne una definizione vaga (come “avere la capacità di agire in modo morale”) o arbitraria (come “rientrare in un determinato spettro di tipicità statistica”) non risolve la questione.

E poi, anche gli esseri umani potenziati godono di una dignità “minima” e sono titolari di diritti. Su questo non è possibile controbattere a meno che non si faccia appello a una distinzione tra modalità di potenziamento “buone”, cioè neutre rispetto al valore intrinseco del soggetto che le usa, e “cattive”, cioè moralmente degradanti. Ma, come ho cercato di mostrare nel Capitolo 6, una distinzione di questo tipo non può essere che arbitraria. Per quanto riguarda invece la dignità come qualità, le nuove tecnologie lasciano intravedere la possibilità di accentuare tutte le qualità del nostro corpo e della nostra mente che riteniamo buone per poter vivere meglio, e quindi di conferire più valore a noi stessi, emancipandoci da quelle limitazioni che possono essere causa di sofferenze. In generale, per quanto resti sempre aperta l’evenienza che qualcuno possa sfruttare le nuove tecnologie come scusa per crogiolarsi nella sua degenerazione morale, una maggiore possibilità di realizzazione personale dando forma a se stessi e alla propria vita può contribuire molto ad accrescere la nostra dignità.

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Sezione Prima: Panoramiche

Sezione Seconda: Due argomenti preliminari

Sezione Quarta: Obiezioni di prudenza



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